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MOSTRA A PALAZZO BERARDI MOCHI-ZAMPEROLI

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RADUNO ANA A CAGLI

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Palazzo Berardi Mochi-Zamperoli - Dal 2 al 24 settembre 2017

venerdì 21 settembre 2007

I FILOSOFI E LA PIAZZA: PRIMO APPUNTAMENTO

Il Circolo Culturale Contemporaneo organizza la 2^ edizione di incontri.
Come accadeva nelle piazze dell’antica Grecia, così a Cagli si è ritagliato uno spazio definitivo per la filosofia e la “gente di piazza”.Dopo il grande successo della prima edizione i filosofi tornano dunque ad incontrarsi e scontrarsi su grandi temi d’attualità. Questa seconda edizione vedrà come protagonisti:

Gianni Vattimo e Domenico Losurdo il 22 settembre, i quali affronteranno il tema “Un Dio o un’idea? - Oltre lo scontro tra civiltà - ”,
mentre il 20 ottobre il protagonista sarà Umberto Galimberti, intervistato dal coordinatore e moderatore Paolo Ercolani sul tema "L'uomo è morto? Eutanasia dell'umano nell'epoca della tecnica".
Gli incontri avranno luogo al Teatro Comunale di Cagli, per informazioni rivolgersi al Comune di Cagli, ufficio cultura: 0721780731

sabato 22 settembre quindi il primo dei due incontri con Gianni Vattimo e Domenico Losurdo
Ecco un articolo che in qualche modo anticipa la visione di Vattimo sull’argomento e di seguito una intervista a Losurdo sul suo ultimo libro:

Cristianesimo e conflitti culturali in Europadi Gianni Vattimo

Da molti segni, sembra che il rapporto del cristianesimo con i conflitti culturali - o la possibilità che essi si accentuino o si inaspriscano - non sia concepito come un rapporto tranquillizzante. Voglio dire che difficilmente oggi il titolo di questo dibattito Cristianesimo e conflitti culturali in Europa sarebbe inteso da qualcuno, a tutta prima, come riferito al cristianesimo in quanto fonte di pacificazione, attenuazione, ecc. dei conflitti culturali. Almeno in prima approssimazione, ciò a cui subito si pensa è che il rapporto si configuri piuttosto nel senso che il cristianesimo - se non come specifica sorgente di conflitto - per lo meno appaia come uno dei termini che entrano in conflitto. In altre parole: l’esistenza di una tradizione cristiana come sottofondo costante, anche se vago e di senso non univoco - nel mondo occidentale, non che essere un elemento di appianamento dei conflitti è (o è diventata) un aspetto costitutivo di essi, se non addirittura un fatto che li promuove e rischia di esasperarli.
Accade qui un po’ come accade per l’interpretazione del rapporto religione-politica: come è capitato di constatare in un dibattito tenutosi di recente a Torino, è quasi “naturale” che la relazione tra religione e politica venga sentita come un rischio per l’autonomia della politica, e di rado , o quasi mai, come l’eventualità che la religione contribuisca positivamente ad arricchire e a migliorare la politica. Mi sembra ovvio che qui siamo di fronte a esiti di esperienze storiche determinate: nel caso del binomio religione-politica, alla base del modo “difensivo’ di intenderlo, sta probabilmente l’esperienza italiana (ma forse non solo, seppure con fisionomie diverse) di una lunga stagione di “ingerenza” della religione, o meglio della Chiesa cattolica, nella scelte elettorali degli italiani.
Quanto al rapporto cristianesimo-conflitti culturali, l’idea del rischio che la tradizione cristiana faccia parte del conflitto, o addirittura contribuisca a promuoverlo, nasce probabilmente con la fine dell’eurocentrìsmo: non pensiamo più che la civiltà europea rappresenti lo sviluppo naturale e normale di tutte le culture umane , che essa sarebbe legittimata a unificare sotto di sè; e così anche il cristianesimo non ci appare più come la rivelazione della verità che illumina le tenebre delle culture “altre”, liberandole dai loro errori o dalle loro parzialità; è una religione e una cultura che si confronta con culture e tradizioni diverse, e dunque è uno dei termini in gioco nel conflitto tra culture e non, almeno non così ovviamente, la sua soluzione.
Del resto neanche all’interno del mondo occidentale cristiano il cristianesimo sembra più funzionare come elemento unificante. E’ qui, anche, la radice un po’ più remota e meno evidente della diffidenza della politica verso la religione: anche dentro al mondo occidentale la religione cristiana è piuttosto un termine del conflitto che un fattore ovvio di unificazione e pacificazione. . Il modo in cui le società occidentali hanno cercato di risolvere il problema di un cristianesimo diventato, da elemento di coesione, fattore di conflitto - una trasformazione che coincide con l’inizio della stessa modernità europea, Riforma protestante, guerre di religione, ma che prosegue fino ai giorni nostri - è stato quello della “evacuazione” della tematica religiosa dall’ambito laico. Il liberalismo ha significato la riduzione della religione alla sfera del privato, al massimo all’ambito della società civile (del libero associarsi di cittadini per scopi “opzionali” ecc. - riv. Dilthey).
Escluse dall’area delle lotte per il potere politico e per la distribuzione delle risorse economiche , la scelta e l’appartenenza religiosa non sono più apparse come una minaccia per la pace sociale. Nel momento in cui il conflitto culturale vede però coinvolti nuovi soggetti religiosi, e cioè le culture altre che nel frattempo si sono stabilite fra noi, questa soluzione liberale del problema funziona ancora? Si può assumerla a modello per il trattamento dei conflitti interculturali? La risposta può difficilmente essere affermativa. La situazione sembra piuttosto essere la seguente: lo spazio laico della politica che sembrava essersi stabilito abbastanza solidamente dentro le società liberali dell’Occidente, non riesce con la stessa sicurezza a includere pacificamente al proprio interno le culture (o almeno alcune culture) “altre” che oggi sono presenti nella nostra società; esse tendono a vedere la stessa laicità dello spazio politico come una minaccia alla loro autenticità, e dunque ad assumerla non come una condizione positiva di libertà, ma come un limite negativo da rifiutare.
Credo si possa ricordare, come esempio emblematico , la storia del divieto del chador nelle scuole pubbliche francesi. Per stabilire una condizione laica nella quale deve essere garantita la libertà religiosa (o irreligiosa) di chiunque, si vieta l’uso (troppo) visibile di uniformi, segni distintivi, ecc. , che potrebbero dar luogo a conflitti proprio in quanto affermazioni troppo marcate di una identità culturale. Ma, come è facile vedere, qui l’identità culturale che sarebbe troppo esplicitamente affermata è una identità altra, minoritaria, relativamente estranea a una più radicata tradizione locale. Se si paragona il divieto del chador con la quasi generale accettazione della presenza di simboli cristiani nelle scuole europee (il Crocifisso alla parete della scuola non viene per lo più contestato, salvo casi che per ora sono in numero limitato), ci si può render conto di quelli che mi sembrano i tratti salienti della nostra situazione . La società europea è, mediamente, laica e secolarizzata, ma sulla base di una abbastanza esplicita eredità cristiana; e ciò diviene evidente quando ci si misura con persone o gruppi radicati in tradizioni diverse, che avvertono la nostra laicità come profondamente marcata da una origine religiosa specifica. Il liberalismo ha creduto di mettere da parte la religione, riservandone lo spazio del privato, del sentimento, delle fede che non “interferisce” con le scelte politiche e con la normale dialettica del potere. Ma questa separazione è riuscita solo perché si è realizzata sulla base solida, anche se non riconosciuta, di una comune appartenenza religiosa.
Lo spazio laico in cui la religione ha cessato di essere un fattore conflittuale si è realizzato nell’Occidente moderno entro un più ampio, e meno riconosciuto, spazio religioso di origine cristiana, o ebraico-cristiana o biblica. Si può esprimere tutto ciò in tanti modi diversi: per esempio, con la boutade (che io continuo a trovare estremamente significativa) di chi dice “grazie a Dio sono ateo”. O, in termini meno paradossali, con il riconoscimento che la secolarizzazione che caratterizza la modernità (come la razionalizzazione capitalistica collegata da Weber all’etica protestante e al monoteismo biblico) è un fenomeno tipico del mondo cristiano . O ancora, prendendo atto che, con un altro paradosso, l’idea stessa del pluralismo delle culture esiste e si è sviluppata dentro una specifica cultura, quella dell’Occidente.
E’ vero che la forma classica in cui l’idea della pluralità delle culture umane si è sviluppata nell’Occidente moderno è quella eurocentrica che oggi non ci appare più sostenibile. Essa collocava le culture altre su una linea evolutiva il cui punto più alto era la civiltà cristiana dell’Occidente. I popoli pagani dovevano essere convertiti al cristianesimo, e le società” primitive” dovevano diventare società moderne, e cioè modellate su quelle occidentali; caratterizzate anche in senso laico, liberale, democratico. Questa visione evoluzionistica della storia umana diretta dall’ideale di emancipazione come occidentalizzazione, modernizzazione, cristianizzazione, è andata in crisi non solo o anzituttto per motivi teorici; è stata la caduta del colonialismo e di molte forme di imperialismo a rendere insostenibile una simile immagine del senso della storia universale.
Se oggi constatiamo che il cristianesimo non si presenta più, o almeno non è più considerato ovviamente quanto prima, come un fattore di superamento dei conflitti interculturali, è anche e soprattutto perché è caduta la sicurezza universalistica della ragione occidentale moderna , che, anche se inconsapevolmente, era una traduzione secolanizzata della fede ebraico-cristiana nel piano divino di salvezza. Quella parte del pensiero cristiano che ha sempre considerato questa traduzione in termini secolari come un tradimento e un abbandono della verità, si compiace oggi del naufragio del "razionalismo” occidentale. Ma tale naufragio ha come sua conseguenza il fatto che il cristianesimo tende oggi a presentarsi come un termine del conflitto culturale, piuttosto che come un fattore di superamento e di conciliazione. La questione che così si pone è tanto più urgente in quanto, parlando di cristianesimo, continuiamo anche a parlare di società liberale, di occidente, di democrazia moderna.
E’ vero che la civiltà cristiana ha avanzato le sue pretese universalistiche lasciando che si intorbidissero e si mescolassero con i piani del colonialismo e dell’imperialismo. Ma con il colonialismo e l’eurocentrismo deve anche necessariamente finire ogni forma di universalismo della ragione e ogni sogno di una civiltà umana universale”? La tesi che intendo sostenere è che:
a) oggi ci sono segni evidenti del fatto che in molte comunità cristiane (nelle diverse chiese e confessioni) dilaga la tentazione di opporre all’universalismo compromesso con l’eurocentrismo del pensiero e della politica occidentale moderna, forme di chiusura che vanno dai vari tipi di comunitanismo (con il risvolto di una certa apartheid delle culture) al vero e proprio fondamentalismo non di rado aperto a esiti violenti;
b) credendo di sottrarsi con questo ai perversi esiti del razionalismo moderno, della secolarizzazione ecc. , il cristianesimo in realtà rinuncia alla sua missione di civilizzazione; che può ricuperare solo ritrovando, in forme certo non più evoluzionistiche e imperialistiche, la propria profonda solidarietà con il destino della modernizzazione.
E’ come se l’alternativa davanti a cui si trova oggi il cristianesimo (e certo sono consapevole che si tratta di un termine generico: la Chiesa cattolica? Le chiese cristiane? Il pensiero dei credenti. Tutto un po’ fosse o caricarsi del destino della modernità (e della sua crisi, del suo passaggio al post-moderno) o, all’opposto, rivendicare la propria estraneità ad essa; ma se scegliesse questa seconda via - e ci sono segni che una tale tentazione c’è rinuncerebbe a essere un mondo e una civiltà, per ridiventare quello che forse era alle origini, una setta tra altre sette e un obiettivo fattore di disgregazione sociale fra altri.
Caricarsi del destino della modernità, del destino dell’Occidente, significa anche, anzitutto, riconoscere il significato profondamente cristiano della secolarizzazione. Torniamo a ciò che si è osservato poco fa: lo spazio laico del liberalismo moderno è più religioso di quanto il liberalismo stesso e il pensiero cristiano sono disposti a riconoscere. Una immediata conseguenza di questa osservazione è che non ha senso, per il cristianesimo, collocarsi nel nuovo spazio dei conflitti interculturali cercando di costituirsi come identità forte. La sua vocazione è piuttosto quella di approfondire la propria fisionomia di sorgente e condizione di possibilità della laicità.
Ciò che - sia pure faticosamente, data la natura niente affatto lineare del problema - sto cercando di sostenere è che la dissoluzione post-moderna dei metaracconti (secondo l’espressione di Lyotard), e cioè la caduta in discredito dell’universalismo della ragione caratteristico della modernità, conduce anche il cristianesimo a sentirsi puro e semplice termine interno di una conflitto tra culture, religioni, visioni del mondo. Comunitarismo di ispirazione religiosa, e fondamentalismi di vario tipo (compreso quello che traspare talvolta anche nell’insegnamento ufficiale della chiesa cattolica), mi sembrano corrispondere a questo nuovo atteggiamento, che si sente tranquillamente legittimato dal fatto di aver chiuso i conti con le implicazione imperialistiche e colonialistiche dell’universalismo e del razionalismo di stampo illuministico.
Ora, è ben vero che, come insegna l’ermeneutica contemporanea di derivazione esistenzialistica (da Heidegger a Gadamer a Pareyson) , la condizione per qualunque dialogo autentico è che ciascuno degli interlocutori assuma esplicitamente la propria condizione di parte coinvolta, si renda conto e renda conto all’altro interlocutore dei propri pregiudizi o, più in generale, della propria identità, senza sentirsi fin da principio colui che sa di più e che può guidare il dialogo verso esiti previsti, già saputi come “veri” (è questo per esempio un motivo della diffidenza dei filosofi ermeneutici per una certa concezione del dialogo psicoanalitico, nel quale si suppone che non ci sia perfetta simmetria tra i due interlocutori). Ma il pensiero cristiano, collocandosi verso le altre culture come un interlocutore con uguali diritti, non dovrebbe dimenticare che fra i tratti costitutivi della sua identità c e appunto anche, e anzitutto, l’eredità dell’universalismo, o se si vuole, la consapevolezza della pluralità delle culture e l’idea di uno spazio laico entro cui esse si possono confrontare. Per collocarsi in modo autentico come interlocutore del dialogo, il cristianesimo non può mettere da parte proprio questo aspetto essenziale della sua eredità e della sua identità.
Per rispettare la sua specifica autenticità, diventa importante che, entrando nel dialogo interculturale, il cristianesimo si presenti come il portatore dell’idea della laicità; che è l’idea stessa dell’universalismo della ragione spogliata delle sue accidentali anche se molto radicate e pesanti - complicità con gli ideali del colonialismo e dell’imperialismo moderni. Ciò significa però che, invece di “identificarsi” come una religione fra le altre, rafforzando i propri caratteri distintivi - sia sul piano dogmatico, sia sul piano della predicazione morale e della coesione disciplinare - il cristianesimo dovrebbe sviluppare la sua vocazione laica -quella che si è già manifestata nel rendere possibile e nel favorire la nascita dell’idea di laicità nella modernità europea. Si tratta qui di riconoscere un aspetto essenziale del cristianesimo come tale, non una sua accidentale caratteristica secolarizzata: a differenza di altre religioni, il cristianesimo ha avuto fin dall’inizio una fortissima componente missionaria, molto esplicita nella predicazione di Gesù, che invia gli apostoli a predicare il Vangelo a tutte le creature.
La forma che l’ideale missionario ha preso nella modernità è stata, certo, quella dell’alleanza, spesso non solo subita come una triste necessità, con l’imperialismo europeo. Ma nello stesso tempo, l’universalismo cristiano dava anche luogo, sulla base delle terribili esperienze delle guerre di religione in Europa, alla scoperta dell’idea di tolleranza e all’invenzione di uno spazio “laico” di libero incontro delle diverse posizioni religiose o areligiose che si erano intanto delineate nella società moderna. Si trattava e si tratta ancora oggi di cogliere nell’annuncio cristiano non tanto e non esclusivamente la liquidazione di tutti gli (altri) dei falsi e bugiardi, ma - anche a partire dal famoso detto di Gesù “date a Cesare. . ”, e da quell’altro: “il mio regno non è di questo mondo. . ” - di garantire uno spazio di legittimità a esperienze religiose diverse. Del resto non è raro, anche presso pensatori che si professano cristiani senza riserve, trovare che l’incarnazione di Cristo è interpretata anche come legittimazione di tutti i simboli naturali della divinità: se Dio si incarna in Gesù, significa che non è così radicalmente lontano dal mondo naturale e umano, e dunque che c’è una possibile verità anche nell’idolatria di tante religioni pagane.
Il cristianesimo si libera della sua complicità con gli ideali imperialistici della modernità europea in seguito a una dura esperienza storica, quella della rivolta dei popoli ex-coloniali che si ribellano ai loro dominatori “cristiani” anche in nome di una più autentica interpretazione del messaggio evangelico. Anche il ritrovamento della propria vocazione “laica” - quella di presentarsi anzitutto come il promotore di spazi di libertà per il dialogo tra religioni, visioni del mondo, orientamenti ideali e culture diverse -e imposto” al cristianesimo dall’incontro della sua vocazione missionaria con esperienze storiche nuove e inedite. Nelle nuove condizioni dei rapporti tra popoli e culture diverse, nel mondo post¬coloniale - il cristianesimo non può pensare di adempiere alla propria costitutiva vocazione missionaria accentuando la propria specificità dottrinale, morale, disciplinare.
All’opposto, esso può sperare di partecipare al dialogo-conflitto, o confronto, tra le culture e le religioni solo facendo leva sul proprio specifico (giacché non lo si trova così marcato nelle altre religioni) orientamento alla laicità. Si potrebbe sintetizzare questa proposta in una specie di slogan: dall’universalismo all’ospitalità. Del resto, il diffondersi di posizioni fondamentalistiche o di forme di apartheid comunitanistìca, mostra chiaramente, secondo me, che nel mondo babelico del pluralismo, le identità culturali e specialmente religiose sono destinate a finire nel fanatismo a meno che non accettino di viversi in uno spinto esplicitamente debole. L’ospitalità - mi richiamo qui a una bella conferenza di Jacques Dernida del gennaio scorso - non si realizza se non come un mettersi nelle mani del proprio ospite, come un affidarsi a lui, accettando dunque l’eventualità, nel caso del dialogo interculturale o interreligioso, che sia lui ad aver ragione. L’identità del cristiano nel dialogo interculturale e interreligioso, se - applicando il precetto della carità - si vuole concretare nella forma dell’ospitalità, non può che ridursi quasi completamente al dare ascolto e al lasciar la parola agli ospiti.
Mi rendo conto che ciò che propongo qui è una tesi densa di conseguenze e molto discutibile. Ma il compito a cui si trova di fronte oggi il mondo cristiano, e cioè l’Occidente, è quello di ricuperare la propria funzione universalistica senza implicazioni coloniali, imperialistiche, eurocentriche. E’ difficile pensare che possa adempiere a questo compito accentuando la propria specificità dogmatica, etica, disciplinare. Una tale accentuazione, si può ragionevolmente sostenere, non corrisponde nemmeno all’essenza della dottrina cristiana, ma dipende piuttosto da una certa inerzia storica delle chiese come organizzazioni mondane. L’altra via che si apre per il cristianesimo è quella di ricuperare la propria funzione universalistica accentuando la sua vocazione missionaria come ospitalità e come fondazione religiosa (paradossale quanto si vuole) della laicità (delle istituzioni, della società civile, della stessa vita religiosa individuale).Così, per tornare all’esempio a cui mi sono riferito poco fa, i cristiani non possono nello stesso tempo rivendicare il diritto di esporre il Crocifisso nelle scuole pubbliche e assumerlo come segno di una religione particolare intensamente dogmatica
O ancora: si può continuare a celebrare il Natale come una festa di tutti, nelle società occidentali, ma non ha poi senso lamentarsi che è divenuta una festa troppo laica, mondana, priva del suo più autentico significato originario. In fondo, il divieto del chador nelle scuole pubbliche francesi può esser giustificato proprio solo dal fatto che lì tratta di una affermazione di identità forte, una sorta di professione di fondamentalismo. Il Crocifisso è invece diventato, nella nostra società, un segno quasi ovvio, a cui si presta meno attenzione, che lascia sussistere la laicità, segnalandone soltanto un’origine religiosa sviluppatasi nel senso della secolarizzazione. E’ proprio in questo suo significato, generico ma anche “aprente” e possibilizzante, che esso può rivendicare il diritto di essere accettato come Simbolo universale in una società laica. Se le religioni, e anzitutto il cristianesimo, vogliono davvero presentarsi come identità forti, allora sarà fatale che la società liberale manifesti la sua laicità solo con una progressiva riduzione della visibilità di ogni simbolo religioso nella vita civile - per non suscitare la reazione di questa o quella minoranza o comunque di religioni e culture “altre”. In tal modo, tra l’altro, finiremmo per dover chiudere gran parte dei musei d’Occidente, e rinunciare alla stessa tradizione culturale occidentale che è così densa di simboli religiosi e inseparabile da essi.
Bisogna semmai favorire una compresenza libera e intensa -certo, anche assumendo come modello di democrazia simbolica proprio il museo, con il suo accostamento di stili, gusti, culture diverse -di molteplici universi simbolici, secondo uno spirito di ospitalità che esprimerebbe bene sia la natura laica della cultura occidentale, sia la sua profonda origine cristiana. Ma per arrivare a questo punto, occorre che le religioni, e il cristianesimo in primo luogo, vivano se stesse non più nella forma dogmatica e tendenzialmente fondamentalista che le ha fin qui caratterizzate. Anche in questo senso, si può dire che, contrariamente ad ogni aspettativa angustamente laicista, il rinnovamento della nostra vita civile in Occidente nell’epoca del multiculturalismo è anzitutto un problema di rinnovamento della vita religiosa.


Micaela Latini
INTERVISTA A DOMENICO LOSURDO
IL LINGUAGGIO DELL’IMPERO. LESSICO DELL’IDEOLOGIA AMERICANA

Professor Losurdo, è recentemente uscito il suo ultimo libro, Il linguaggio dell’impero
(Roma-Bari, Laterza, 2007), per la casa editrice Laterza. Come emerge già dal sottotitolo,
Lessico dell’ideologia americana, al centro di questo lavoro è un’analisi di quelle categorie che
giocano un ruolo centrale nell’ambito della ideologia della guerra. L’obiettivo dichiarato, così mi pare, è quello di rivisitare alcuni “concetti-chiave” che sono ormai radicati nella comune
opinione, sottraendoli da un lato a quella interpretazione ideologica e spesso fuorviante che si
è andata affermando, e dall’altro a una semplificazione linguistica che non può restituire la
cifra della complessità dei fenomeni in causa.
Da quali interrogativi prende le mosse la sua ricerca? Può offrirci uno sguardo sinottico sul suo
lavoro?
Sul piano geopolitico e ideologico l’odierna situazione internazionale potrebbe essere così
caratterizzata: al tendenziale monopolio delle armi più sosfisticate e più micidiali – lo scudo
stellare degli Stati Uniti mira a rendere inservibile l’armamento nucleare degli altri paesi –
corrisponde la pretesa di Washington di ergersi a giudice universale, un giudice che per di più
detta le regole del discorso e sancisce in modo inappellabile le norme, i capi di imputazione
morale, i peccati, contro cui bisogna stare in guardia se si vuole evitare di essere messi in
stato d’accusa in quanto colpevoli, in misura più o meno grave e in modo diretto o indiretto, di terrorismo, fondamentalismo, antiamericanismo, antisemitismo (e antisionismo), filoislamismo
e odio contro l’Occidente. Dagli effetti potenzialmente devastanti, questi bandi di scomunica
colpiscono in primo luogo i paesi da Washington assimilati a canaglie fuorilegge, ma tengono
sotto tiro gli stessi alleati riluttanti. E’ stata questa situazione geopolitica e ideologica a
stimolare Il linguaggio dell’Impero.

Iniziamo dal primo temine: “Terrorismo”, uno delle determinazioni più usate per nominare la
violenza odierna, ma anche un concetto del tutto improprio e ambiguo (ad esempio nel fatto
che se per un verso è assimilabile a un giudizio soggettivo per altro è definizione descrittiva di
atti di violenza?). A quale forma di terrorismo si rivolge la sua analisi? Quali sono, a suo
parere, le radici del terrorismo, e in quale terreno affondano?
A proposito del terrorismo individuale nel mio libro cito un articolo dell’«International Herald
Tribune» che già nel 2000 annunciava giubilante: la Cia ha stanziato somme enormi «per
trovare un generale o un colonnello che conficchi una pallottola nel cervello di Saddam».
Passiamo ora al terrorismo di massa. Se con esso si intende lo scatenamento della violenza
contro la popolazione civile in vista del conseguimento di determinati obiettivi politici e militari, dobbiamo dire che nella storia l’esempio più clamoroso di questa forma orribile di violenza è stato l’annientamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki. A parlare a tale proposito di «bombardamento terroristico» sono ai giorni nostri autorevoli storici statunitensi.
Disgraziatamente, non si tratta di un capitolo remoto di storia. «Agli inizi degli anni Settanta»
del Novecento – a riferirlo sono sempre studiosi americani - Richard Nixon e Henry Kissinger
«ordinarono di sganciare nelle aree rurali della Cambogia più bombe di quante ne fossero state lanciate sul Giappone durante la seconda guerra mondiale, uccidendo almeno 750.000
contadini cambogiani». Per quanto riguarda il Vietnam, a trent’anni dalla fine delle ostilità,
sono ancora quattro milioni le vittime col corpo devastato dall’agente arancione ovvero dalla
diossina. Il ricorso ad armi che colpiscono nel mucchio e continuano ad avere effetti a
lunghissima scadenza ci mette in presenza di un terrorismo particolarmente crudele: esso ha
come bersaglio non solo l’intera popolazione civile, ma anche i figli e i nipoti di questa massa di innocenti.
Come si vede, ha ben scarsa credibilità la pretesa di Washington di ergersi a campione della
lotta contro il terrorismo! Certo, il linguaggio dell’Impero si concentra soprattutto sull’orrore
degli attentati suicidi. Ma anche in questo caso è istruttivo uno sguardo alla storia e
all’antropologia. Gli ebrei che a Masada oppongono resistenza all’Impero romano o che, oltre
un millennio dopo, nel corso della prima Crociata si impegnano a difendere la loro identità
religiosa e culturali; gli indios travolti dai conquistadores; i neri che con ogni mezzo cercano di
sottarrsi alla schiavitù: tutti questi diversi gruppi etnici hanno fatto ricorso con modalità
diverse alla pratica del suicidio. Di volta in volta gli osservatori più lucidi e sensibili si sono
sforzati di comprendere le ragioni di chi preferisce dare la morte a sé e ai propri cari, cercando talvolta di coinvolgere nella rovina anche i responsabili del gesto disperato. Di ciò si rivela incapace l’ideologia oggi dominante in Occidente…

Quando si parla del mondo arabo e islamico si ricorre, come per una deduzione logica, alla
categoria del “Fondamentalismo”. E’ a questo motivo, e alle sue diverse connotazioni, che lei
dedica il secondo capitolo del libro. Il fenomeno del “Fondamentalismo” è circoscrivibile al solo
orizzonte contemporaneo? E inoltre: è esclusivo appannaggio della cultura islamica?
Il fenomeno del fondamentalismo, non è limitato né alla modernità né al mondo islamico. Già
l’eminente storico inglese Arnold Toynbee, che ci ha lasciato un grandioso affresco delle
diverse civiltà emerse nel corso della storia universale, richiama l’attenzione sulla fanatica
resistenza all’insegna dello «zelotismo» ovvero del «mahdismo» opposta dai settori più
ortodossi e più radicali del mondo ebraico all’espansione politica e culturale dell’ellenismo.
Questi fondamentalisti ante litteram condannano la nudità e l’immoralità delle palestre e degli
stadi greci, soprattutto guardano con orrore al pericolo della contaminazione della culturale:
«Maledetto sia l’uomo che alleva un maiale e maledetti siano coloro che istruiscono i figli nella
sapienza greca». Siamo ben al di qua dell’avvento di Maometto, siamo nel secondo secolo
avanti Cristo!
Possiamo fare una considerazione di carattere più generale. Nei paesi chiamati a fronteggiare
l’invasione di un nemico più forte e più progredito, il fondamentalismo è l’atteggiamento di
quei gruppi che, assieme all’invasione, intendono respingere in blocco la stessa cultura degli
invasori. E’ un atteggiamento che spesso emerge come reazione a precedenti esperienze di
fiducia ingenua e mal riposta. Illuminante è l’esempio della Cina. A metà dell’Ottocento esplode la rivolta dei Taiping, filo-occidentale e ostile in modo implacabile nei confronti della dinastia regnante: duramente critica nei confronti del confucianesimo, essa si ispira al cristianesimo, dal quale desume in ultima analisi il monoteismo e il motivo messianico del «Regno celeste della grande pace». Ben lungi dall’essere xenofobo, è un movimento caratterizzato da intolleranza per la cultura tradizionale. Sennonché, contrariamente alle attese e alle speranze dei suoi dirigenti, la Gran Bretagna interviene a sostegno non già dei modernizzatori bensì della decrepita dinastia al potere. Ed ecco, nel 1900, svilupparsi in Cina un movimento del tutto diverso: assieme agli invasori, i Boxer prendono di mira anche le idee e le stesse invenzioni tecniche dell’Occidente, mentre difendono fanaticamente la tradizione religiosa e politica autoctona. Alla loro furia non si sottraggono né il telegrafo né le ferrovie né il cristianesimo: siamo in presenza, in ultima analisi, di una rivolta di tipo fondamentalista.
Qualcosa di analogo possiamo osservare a proposito dell’Iran dei giorni nostri: la vittoria della
rivoluzione fondamentalista ha luogo nel 1979, a circa 25 anni di distanza dal colpo di Stato
con cui Usa e Gran Bretagna rovesciano Mossadeq, il quale dirigeva un governo democratico e
laico e quindi aperto alle influenze della cultura occidentale, ma colpevole agli occhi di
Washington e Londra di aver nazionalizzato il petrolio e di voler respingere la tutela delle
grandi potenze imperiali.
Nel respingere in blocco la cultura e la religione degli invasori, il fondamentalismo tende a
costruire una sorta di religione nazionale. Ma questa tendenza si manifesta nello stesso
invasore, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti, che nel corso di tutta la loro storia si
atteggiano a «popolo eletto» da Dio e da Lui investito della missione di guidare il mondo.
Questa è più che mai la visione di Bush jr.. il quale va ancora oltre: «Dio non è neutrale
davanti al bene e al male. Dio è con l’America». Diamo ora la parola ai predicatori che si
muovono nella cerchia del presidente statunitense: «Dio è a favore della guerra», e ad essa
anzi prende parte direttamente: «Dio combatte contro coloro che a Lui si oppongono e che
lottano contro di Lui e i Suoi seguaci». Se molteplici sono le forme che può assumere il
fenomeno del fondamentalismo, solo nel caso americano esso finisce col consacrare
teologicamente un paese e un popolo ben determinato, garantendogli l’assistenza divina nella
sua pretesa di edificare un Impero planetario.

Un’altra espressione centrale e ricorrente è quella di “Antiamericanismo”, identificato come un
morbo che infuria sia da destra sia da sinistra. E’ storicamente fondata e documentabile una
tale interpretazione?
La storia degli Stati Uniti presenta caratteristiche peculiari. Siamo in presenza di un paese che, privo del peso della società cetuale dell’Antico regime, è il primo ad incamminarsi sulla via della democrazia rappresentativa (nell’ambito della comunità bianca). C’è però l’altra faccia della medaglia: per trentadue dei primi trentasei anni di vita degli Stati Uniti ad occupare il posto di Presidente sono proprietari di schiavi. Ciò vale per Washington, che dirige
l’insurrezione contro l’Inghilterra, per Jefferson, l’autore della Dichiarazione d’Indipendenza,
per Madison, l’autore della Costituzione del 1787. La schiavitù non è un residuo: a metà
dell’Ottocento gli Usa la reintroducono nel Texas strappato al Messico; più in generale, a lungo essi sono i campioni di un istituto che è scomparso in larga parte del continente americano. A ciò occorre aggiungere le pratiche di espropriazione, deportazione, decimazione e annientamento messe in atto a danno dei pellerossa. Per spiegare questo intreccio di
caratteristiche a prima vista così contraddittorie, autorevoli studiosi statunitensi hanno parlato
della storia del loro paese come della storia di una Herrenvolk democracy, ovvero di una
«democrazia per il popolo dei signori»: la democrazia nell’ambito della comunità bianca va di
pari passo con l’oppressione (sino alla schiavitù e al genocidio) imposta ai popoli coloniali.
Possiamo allora capire il diverso atteggiamento della sinistra e della destra. A partire da Marx
per giungere ai bolscevichi e a Gramsci, la sinistra apprezza il peso ridotto delle differenze o
delle barriere di ceto, che continuano a lungo a farsi sentire in Europa. Ereditando e
radicalizzando la tradizione della destra più reazionaria, Hitler scioglie invece un inno
all’«americanismo», inteso quale sinonimo di gerarchia razziale, di supremazia bianca, di
espansione inarrestabile a danno delle razze inferiori. Come si vede, quel che è amato dagli uni è odiato dagli altri, e viceversa. Chiaramente mitologica si rivela la tesi della convergenza tra antiamericanismo di destra e di sinistra.

Nel V capitolo del suo libro Lei affronta il termine “Antisionismo”. Secondo una certa lettura
avanzata nell’ambito dell’ideologia dell’Impero, l’antisionismo sarebbe una forma di
antisemitismo. Qual è la sua opinione a riguardo?
A questo luogo comune si potrebbe rispondere ricordando l’osservazione che negli anni ’20 fa
Lucien Wolf, incaricato della comunità ebraica inglese per le relazioni internazionali: «Gli
antisemiti sono sempre sionisti ardenti e simpatetici». Ciò non vale solo per la Gran Bretagna.
Già a partire dalla fine dell’Ottocento, ad augurarsi la realizzazione della «profezia di Herzl» e a prendere posizione a favore del sionismo («La Palestina agli ebrei! Gli ebrei in Palestina!»)
sono in Francia (in quel momento alla testa della campagna anti-ebraica) i più ferventi
antisemiti, sono i discepoli e i seguaci di Édouard Drumont, il quale ultimo incontra
personalmente Herzl e scrive una recensione assai favorevole del suo libro: Lo Stato ebraico ha chiarito una volta per sempre come si può risolvere il problema degli ebrei; basta «rinviarli
tutti in Palestina». Secondo Hannah Arendt, a condividere tale entusiasmo è persino uno degli
esponenti più famigerati del Terzo Reich: «Dopo la lettura di questo famoso classico sionista,
Eichmann aderì prontamente e per sempre alle idee sioniste». Agli occhi degli antisemiti e degli stessi nazisti, il sionismo sarebbe qualcosa di positivo se riuscisse realmente a metter fine alla presenza dell’ebraismo in Europa e in Occidente e dunque a liquidare la società multirazziale e multiculturale che qui sciaguratamente imperversa.
A tale proposito le citazioni potrebbero moltiplicarsi. Ma, per convincersi della totale assurdità
della consueta identificazione di antisionismo e antisemitismo, basta porsi una domanda:
dileguerebbe l’indignazione dei palestinesi se, a condurre il processo di espropriazione e di
colonizzazione delle loro terre, piuttosto che ebrei sionisti, fossero cinesi o afroamericani? Chi
argomenta in tal modo dimostra di avere un’inquietante visione razziale del conflitto e di
essere incline a quel razzismo che dice di voler combattere.

Il VI capitolo del suo libro è dedicato al concetto di “Filo-islamismo”. Può ricordare quali motivi
si stringono intorno a questo nodo concettuale.
Come dimostra ad esempio lo straordinario successo dei libri di Oriana Fallaci, è assai diffuso il motivo della minaccia mortale che il mondo arabo-islamico farebbe pesare sull’Occidente. Chi prende le distanze da questa Crociata è accusato di appeasement e di «filoislamismo». Nulla di nuovo sotto il sole! Già Spengler denuncia i «popoli islamici» quali campioni dell’agitazione e della rivolta anti-coloniale e anti-occidentale, quali protagonisti della «rivoluzione mondiale dei popoli di colore», della sciagurata sollevazione in corso contro i «bianchi popoli dei signori». E’ interessante notare che, tra il 1953 e il 1956, Churchill e Eisenhower hanno chiamato a combattere l’Egitto di Nasser in nome della difesa «dei bianchi» (of white people), dell’«uomo bianco» (the white man). Chiaramente, per i due statisti gli arabi continuavano a far parte delle popolazioni negroidi.
Ma, ai giorni nostri, arabi e islamici hanno preso il posto soprattutto degli ebrei. Essi sono
accusati di non volersi assimilare nei paesi occidentali che li ospitano, di costituire «uno Stato
nello Stato», di essere affetti da nevrosi e da nichilismo: sono i classici cavalli di battaglia
dell’antisemitismo. Persino la denuncia del «fanatismo» e della «teocrazia» non è affatto un
motivo nuovo: a suo tempo ha preso di mira gli ebrei, ostinatamente attaccati al loro testo
sacro e incapaci – si diceva – di adattarsi al mondo moderno. L’odierna campagna contro il
«filo-islamismo» ha preso il posto della campagna contro il «filo-semitismo» scatenata
nell’Otto e Novecento dai campioni dell’antisemitismo. Infine. Quando un autore quale
Huntington, guardando anche alla Cina, mette in guardia contro un possibile asse «islamicoconfuciano», siamo portati a pensare alle campagne naziste contro la cospirazione «ebraicobolscevica».

“Odio contro l’Occidente” è il titolo del VII, e ultimo capitolo del suo libro. Le riflessioni
contenute in questa sezione prendono le mosse da una domanda fondamentale: “Perché mai
l’Islam dovrebbe amare e rispettare l’Occidente più di quanto l’Occidente ami e rispetti
l’Islam?” Le categorie di Oriente ed Occidente sono, a suo parere, categorie proprie?
No di certo! A lungo, all’Europa da essi abbandonata gli americani hanno guardato come al
luogo del peccato e della tirannia, come all’Oriente: è il continente americano a costituire
l’emisfero occidentale. Anzi, stando a Benjamin Franklin, che scrive alla metà del Settecento,
gli europei (almeno quelli collocati sul continente) non fanno propriamente parte neppure della razza bianca: sono «di colore vagamente scuro», mentre «il nucleo principale del popolo
bianco», del «popolo bianco in modo puro» è costituito dagli inglesi insediati sulle due rive
dell'Atlantico. Una visione simile ha conosciuto una duratura fortuna anche in Inghilterra: non
mancava chi, scherzando ma non troppo, amava dire che «i negri cominciano a Calais»,
appena attraversata la Manica; con linguaggio ovviamente più misurato, lo stesso John Stuart
Mill non nasconde il suo disprezzo nei confronti delle «nazioni continentali».
A conferma della labilità dei confini dell’Occidente si può fare questa ulteriore riflessione: lo si
celebra come il luogo sacro o esclusivo della civiltà, implicitamente relegando il Terzo Reich
nell’Oriente. Ma, a chi l’avesse dimenticato Hannah Arendt fa notare che il «genocidio senza
precedenti», mirante a cancellare gli ebrei dalla faccia della terra, ha avuto luogo «nel centro
della civiltà occidentale». Disgraziatamente, però è la stessa Arendt ad affermare che il Belgio
di Leopoldo II, colpevole di aver drasticamente decimato la popolazione del Congo avrebbe
agito in contrasto con «tutti i princìpi politici e morali dell’Occidente». In realtà, i congolesi non hanno subìto una sorte peggiore degli aborigeni del Nord America, dell’Australia, della Nuova Zelanda ecc. D’altro canto: cosa avrebbe detto la Arendt di un bilancio storico in base al quale lo sterminio degli ebrei avrebbe avuto luogo nel Terzo Reich in contrasto con «tutti i principi politici e morali della Germania»? E’ la riprova che l’Occidente, e tanto più l’Occidente
«autentico», è il risultato di una costruzione mutevole e spesso arbitraria.

Lei, che si è già a lungo occupato delle ideologie di guerra, quali novità riconosce all’odierno
lessico dell’Impero?
La novità più importante è che oggi vediamo Washington ereditare ed unificare le diverse
ideologie che storicamente in Occidente hanno legittimato e alimentato le pretese al dominio e all’egemonia. Alla fine dell’Ottocento, dopo aver celebrato i prodigiosi successi conseguiti dalla Germania sul piano economico, politico e culturale, un fervente e influente sciovinista, e cioè Heinrich von Treitschke, prevedeva e auspicava che il Novecento diventasse un «secolo
tedesco». Ai giorni nostri, privo ormai di qualsiasi credito in patria, questo mito ha preferito
trasmigrare negli Stati Uniti, dove ha trovato accoglienza calorosa e entusiastica: è noto che il
«nuovo secolo americano» è la parola d’ordine agitata dai circoli neo-conservatori, che un
ruolo così importante svolgono nell’ambito dell’amministrazione Bush e, più in generale, della
cultura politica statunitense.
Nel corso della prima guerra mondiale, paesi come la Francia, l’Inghilterra, l’Italia e gli Stati
Uniti sono andati incontro al massacro agitando la bandiera dell’«interventismo democratico»:
la guerra era necessaria per far avanzare sul piano mondiale la causa della democrazia, per
liquidare negli Imperi centrali l’autocrazia e l’autoritarismo e sradicare così una volta per
sempre il flagello della guerra. Questo motivo ideologico ha ora assunto un’enfasi senza
precedenti ed diventato un monopolio degli Stati Uniti: essi si attribuiscono la missione eterna
e divina di imporre dappertutto, anche con la forza delle armi, «democrazia» e «libero
mercato».
Il mito dell’Impero apportatore di ordine, di stabilità e di pace accompagna come un’ombra la
storia del colonialismo e dell’imperialismo. All’apice della sua potenza, la Gran Bretagna della
regina Vittoria non disdegnava di paragonarsi all’Impero romano. Ovviamente, questo è un
motivo caro in modo particolare a Mussolini che, dopo aver in modo barbaro messo a ferro e
fuoco l’Etiopia, nel discorso del 9 maggio 1936, saluta la «riapparizione dell’Impero sui colli
fatali di Roma» e celebra il rinato impero romano come «impero di pace» e «impero di civiltà e umanità». E’ un motivo ben presente anche in Hitler, anche se questi, con lo sguardo rivolto
alla conquista dell’Europa orientale, preferisce far riferimento in primo luogo a Carlo Magno e
al Sacro Romano Impero della Nazione germanica. Caduta in disgrazia in Europa, tale
mitologia è più che mai di casa al di là dell’Atlantico, dove non mancano neppure le
riabilitazioni esplicite dell’imperialismo in quanto tale. In ogni caso, nei circoli dominanti il culto dell’impero è così forte da comportare anche la denigrazione della categoria di «equilibrio», inaccettabile già per il fatto di implicare in qualche modo l’idea di uguaglianza o di reciproco rispetto, sia pure soltanto tra le grandi potenze. A porre fine una volta per sempre a questo vecchiume è chiamato una sorta di rinato impero romano di dimensioni planetarie e, naturalmente, garante della pace, della civiltà e dell’umanità.
Infine. La storia della tradizione coloniale è tutta attraversata dall’appello enfatico alla difesa
dell’Europa e dell’Occidente e all’espansione dell’area della civiltà di contro alla minaccia ovvero all’ostinazione dei barbari. Nell’ereditare e radicalizzare la tradizione coloniale, il fascismo e il nazismo non potevano non riprendere questo motivo ideologico, che risuona in particolare nelle dichiarazioni dei dirigenti e degli ideologi del Terzo Reich, immediatamente confinante con la barbarie orientale e asiatica da sconfiggere e assoggettare. Ad ergersi a campioni dell’Occidente, e soprattutto dell’Occidente più autentico, quello più puro e più incontaminato dalle incrostazioni e dai cedimenti filoislamici, sono oggi gli Stati Uniti d’America.

13 commenti:

Anonimo ha detto...

Peccato che i filosofi e gli uomini di cultura ed anche gli spettacoli che vengono portati sulla piazza e nel teatro di Cagli sono sempre della stessa corrrente "politica" di pensiero.
Rispetto tutti gli uomini di cultura e tutte le scuole di pensiero, ma a Cagli è risaputo,si fa trapelare solo un tipo di pensiero e questo non mi pare molto democratico.
ciao Lupa

Fronte Sociale Pesaro Urbino ha detto...

Sapete come viene chiamata Cagli da militanti diessini di altre regioni che conoscono la realta Marchigiana,
IL FEUDO DI MINARDI!
per il resto sono d'accordo con l'anonimo, spero solo che la vicenda Grillo animi un po' le pecorelle rosse cagliesi....

Anonimo ha detto...

Un feudo senza abitanti quale valore può avere? L'entroterra non può più essere serbatoio di voti per nessuno quando basta andare in un Quartiere di Fano e si ha lo stesso numero di elettori che conta l'intera comunità montana del Catria e del Nerone. Non illudiamoci ancora di contare qualcosa. Contiamo poco e conteremo sempre di meno.
Riguardo ai filosofi e musicisti e artisti di sinistra che "sfilano" a Cagli, un tempo anche io ero convinto fosse così. Ma la triste realtà è un'altra: una cultura rivolta non a sinistra in Italia non esiste. O meglio non è esistita dal dopo guerra fino ad oggi. La Dc ha abdicato rispetto a questo tema. Si è accontentata della gestione del potere, senza pensare tanto a "tirare su" qualcuno che fosse dissidente. Forse, negli ultimi tempi, lo spezzettatamento dei partiti, la mancanza di una vera identità ha portato a "figli senza più padri". Da un certo punto di vista è un bene. Tra l'altro mi permetto di far presente che lo scorso anno ai filosofi e la Piazza hanno partecipato persone non propriamente con una cultura di sinistra: Marcello Veneziani non mi sembra possa essere annoverato tra gli intellettuali di sinistra; Piergiorgio Grassi http://www.uniurb.it/scirel/docenti/grassi.htm , anche lui, con il curriculum che ha non mi pare che sia propriamente organico alla cultura di sinistra.
Certamente c'è stata una tendenza della cultura sino ad oggi, ma generalizzare non credo che serva. Forse sarebbe ora di fare un esame di coscienza e capire le ragioni pe rcui fino ad oggi non è stato possibile o non si è realizzata una cultura alternativa altrettanto forte. Anche se, come dicevo, segnali di superamento credo che ci siano e forti.

Fronte Sociale Pesaro Urbino ha detto...

Contiamo meno perchè non esiste un'opposizione a rappresentare, difendere, proporre, organizzare politicamente il nostro territorio e i suoi interessi nel confronto con provincia e regione, l'attuale maggioranza non fa programmazione ma liste della spesa e scambi di poltrone a caro prezzo e i cittadini contribuenti pagano!
Ci vuole un ricambio della classe politica, con persone nuove serie e motivate.
Poi pubblicare on-line sul sito ufficiale del comune gli stipendi di Sindaco, Giunta e Consiglieri comunali, delle loro partecipazioni in Società e Associazioni.

Anonimo ha detto...

Mi permetto ancora di essere in disaccordo. E' vero che la progettazione ha lasciato campo ad un vivere alla giornata che sta progressivamente impoverendo l'entroterra. Ma nella democrazia, volenti o nolenti, a contare sono i numeri e noi non li abbiamo. Le decisioni vengono prese da altre parti, non solo perché ci sono sempre le stesse persone nelle "stanze dei bottoni", ma anche perché queste persone se proprio devono fare riferimento a qualche elettore si rivolgono a dove il bacino è più ricco. Un politico, che trae la propria possibilità di essere eletto dal numero di elettori che possono osservare il lavoro che svolge e quello che fa per un territorio, sarà più propenso a difendere(faccio un esempio ma se ne potrebbero fare tantissimi altri) il potenziamento dell'ospedale di Fano o quello di Cagli? Tra Pesaro e Fano ci sono i due maggiori ospedali della provincia, a 10 km di distanza. Mentre in tutto l'entroterra pesarese sono rimasti in sostanza quattro ospedali (Cagli, Fossombrone, Pergola e Urbino con tutti i problemi di vie di comunicazione che quest'ultimo ha). E' solo responsabilità dei politici locali o è, invece, più lecito credere che il bacino di voti di Fano sia più importante di quello dell'intera Comunità Montana del Catria e del Nerone? Ciò non toglie le responsabilità su tanti affari di questi anni come l'acqua, i rifiuti etc. Ma criticare sempre e comunque finisce per screditare chi critica non tanto meno di chi viene criticato. Se, invece, si critica e nel contempo si sottolienano determinate realtà credo che valga a rendere più credibile chi critica. Chiaramente questo è un discorso generale. Non mi pronuncio sulla credibilità dei partecipanti a questo forum. Anche perché non è certo da pochi post che si può essere compiuto questo apprezzamento.

vivereacagli ha detto...

Un conto è non avere peso nelle decisioni che vengono prese a livelli amministrativi più alti, un conto è non vedere risolti i problemi spiccioli che investono quotidianamente i cittadini. Insomma, caro Anonimo del 25 settembre, non vorrai sostenere che ci dobbiamo rassegnare a vedere eletti degli amministratori che non tutelano gli interessi del territorio? Se dovrà essere così non sarà certo con il nostro voto.
Quanto alla credibilità dei partecipanti a questo forum non mi pare che siano state sollevate sempre e solo critiche infondate: se ti riferisci a qualche commento o a qualche argomento in particolare spiegacelo, siamo qui per questo.

Anonimo ha detto...

anonimo del 24 settembre 2007 18.44 chi ti manda?
qualche compagnuccio che intravede la malpartita, forse qualcuno non si è reso conto ancora che a Cagli finalmente c'e' gente che ha il coraggio di denunciare le mele marce.

Fronte Sociale Pesaro Urbino ha detto...

Quindi anonimo secondo te dobbiamo restare muti e rassegnati di fronte
agli stessi poltronari ventennali,
tanto siamo pochi..aspettiamo inermi di farci fagocitare,
noi non ci stiamo, come neomovimento stiamo lavorando per ricompattare l'intera comunità montana ricostruendo quello che i compagni in anni di invidie, lotte di potere, affari sporchi, hanno distrutto creando contese campanilistiche sensa senso,
coesi possiamo dire la nostra.
Ciao

Anonimo ha detto...

si parte dai filofofi e si finisce con l'ospedale...
possibile che (nonostante le note correnti di pensiero degli ospiti) nessuno di voi possa comunque apprezzare una tale manifestazione che, di sicuro, è interessante e porta un sacco di gente a cagli?!

vivereacagli ha detto...

Concordo! PANTAREI ha colto nel segno! Sarebbe bello non trasportare tutto sul piano polemico. Certi temi sono interessanti e dovrebbero essere approfonditi, soprattutto da personaggi competenti in materia. Ma forse fra i fraquentatori di questa mia modesta iniziativa non ci sono interlocutori all'altezza. O, se ci sono, forse non ritengono che questa sia la sede appropriata per esprimersi.

Anonimo ha detto...

io credo che fra gli interlocutori prevalga la rabbia ed il senso di impotenza di fronte alla miriade di cose che non vanno a Cagli e nell'amministrazione. Per� bisogna a volte saper essere obiettivi e prescindere per un attimo dalle posizioni politiche.
nel mio piccolo, per le cose che mi interessano/avano ho cercato di smuovere qualcosa. Ho raccolto firme, ho chiesto ed ottenuto incontri con assessori... ammetto poi di aver ottenuto solo buone parole ma almeno ci ho provato e continuo a farlo.
A me piace la polemica, ma quella costruttiva, a maggior ragione se viene da chi la pensa in maniera diametralmente opposta alla mia!
cmq complimenti per l'iniziativa: un foro virtuale ove si affrontano temi concreti di interesse comune � impresa ardua ma nobile!

vivereacagli ha detto...

Grazie Pantarei, spero che in questa impresa ardua, come dici tu, mi venga facilitato il compito dalle presenza di commentatori come te.

Anonimo ha detto...

e comunque, come al solito, la gente di Cagli quella sera era in netta minoranza...