Nuove promesse sulla Sanità Regionale.

Nuove promesse sulla Sanità Regionale.
Cambio di passo o vuota propaganda?

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San Leo. Un toponimo da recuperare.

MOSTRA A PALAZZO BERARDI MOCHI-ZAMPEROLI

MOSTRA A PALAZZO BERARDI MOCHI-ZAMPEROLI
L'ANIMA NEL TEMPO

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INNO AL TARTUFO. Cagli 23 e 24 novembre 2019

RADUNO ANA A CAGLI

RADUNO ANA A CAGLI
RADUNO ANA A CAGLI

MOSTRE D'ARTE

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Palazzo Berardi Mochi-Zamperoli - Dal 2 al 24 settembre 2017

domenica 30 settembre 2007

A CAGLI GLI PSEUDO-PUB SFONDANO IL MURO DEL SUONO

Questa notte sfondato ampiamente l’orario di chiusura e la musica a tamburo battente ha inondato via don G. Celli e dintorni dalle 22.00 alle 02.30.Straordinaria la presenza di giovani e meno giovani ieri sera nello storico parcheggio selvaggio di Piazza Matteotti. Il rito è classico: dalle 22.00 un discreto numero di persone staziona davanti ai due bar di piazza con i primi bicchieri in mano. A questo punto il richiamo della musica battente proveniente da via don G. Celli volutamente diffusa verso l’esterno del locale polarizza l’attenzione dei presenti che a piccoli gruppi cominciano a defluire verso la magica fonte del frastuono. Lì i fluidi defluiscono abbondanti dalle spine e vengono poi scaricati (anche poco nascostamente) nei cantoni, mentre i tamburi continuano la ritmata azione di sostegno dell’animazione della festa.
Il baccano è continuato fino alle 02.30 in barba alle ordinanze vigenti, senza la benché minima autorizzazione e senza pagare una lira di SIAE.
Seguiranno provvedimenti legali a carico dei gestori.

mercoledì 26 settembre 2007

OGGI E’ IL COMPLEANNO DI DON MARCO PRESCIUTTI





Al nostro amatissimo parroco della Cattedrale di Santa Maria Assunta formuliamo i migliori auguri.

UNA TOMBA MEDIEVALE IN PIAZZA MATTEOTTI

E’ emersa durante i lavori di scavo per una conduttura dell’acquedotto cittadino
Per Cagli si tratta dell’ennesima testimonianza del passato
Una folla di curiosi ha seguito l’intervento della Soprintendenza


Fonte: Corriere Adriatico del 26 settembre 2007
CAGLI - Ieri mattina a Cagli, nella centralissima piazza Matteotti, durante i lavori di scavo per una conduttura dell’acquedotto, è stata rinvenuta una antica tomba. Una scoperta per certi versi inaspettata, sicuramente interessante per gli studiosi, certamente fonte di curiosità per i residenti.Una tomba contenente resti ossei, probabilmente una tomba che risale al medioevo, nel periodo a cavallo tra il VII e l’VIII secolo dopo Cristo.Va subito sottolineato che le tombe che sono state trovate sotto il pavimento dell’atrio del Comune, la Sala del Gran Consiglio, riguardano una necropoli che - anticamente - era nell’area della piazza centrale di Cagli. “Doveva essere un terreno pubblico perché di solito - come ha dichiarato Marco Reali, presidente dell’Archeoclub di Cagli - queste necropoli venivano realizzate in terreni con tali caratteristiche”.La scoperta di ieri mattina in piazza Matteotti è molto importate per la storia di Cagli. In pratica si evince che probabilmente l’antico Vicus di Cagli, nel corso del tempo, si sia allargato nella parte centrale della città, chiamata allora “Piana di Sant’Angelo”, dove c’era l’attuale chiesa di San Giuseppe.La deduzione è, quindi, che qui intorno, appunto tra VII e VIII secolo, ci doveva essere una necropoli, che si era sviluppata sopra l’antico Vicus Romano. Sotto le ossa è stata trovata una tegola. Altre tegole potrebbero essere scoperte quando si scava nel centro della città, come accaduto al piano terra del Municipio, durante i lavori di circa un anno addietro.Del ritrovamento in piazza Matteotti è stata informata la soprintendenza delle Marche, che provvederà alla ripulitura della tomba, a fotografare i resti, a catalogarli.Una documentazione ulteriore a dimostrazione della presenza di una necropoli che esisteva già oltre mille anni fa.La storia ci riporta a quando Cagli nel 1289 venne ricostruita nella piana di Sant’Angelo, in basso rispetto a dove si trovata il primo nucleo che era in cima al colle chiamato della “Banderuola”.In seguito alle battaglie che opposero i Guelfi ai Ghibellini la città fu incendiata e Papa Nicolò IV° decretò che fosse ricostruita. Appunto in basso sulla piana di Sant’Angelo, dove è ubicata attualmente.Il ritrovamento di una tomba nella piazza cagliese ha creato grande curiosità ieri mattina. Chi si è trovato a passare in piazza non ha mancato di dare uno sguardo per vedere la tomba, argomento di discussione della città, anche se gli abitanti sono ormai abituati al ritrovamento di antichi reperti, sia quelli ubicati lungo la strada consolare Flaminia che quelli in centro storico, come appunto è avvenuto in piazza Matteotti ieri mattina.E’ una testimonianza in più che Cagli esisteva già da più di duemila anni e la sua storia è fatta di tante vicende che sono state tramandate nel tempo. Una storia di cui i cagliesi si sentono orgogliosi e ogni ritrovamento è un segno in più che va ad aggiungersi alle testimonianze storiche di un popolo.I lavori proseguono, non è stato necessario bloccarli. GIOVANNI BARTOLI

domenica 23 settembre 2007

ADDIO A OVIDIO LUCCIARINI IL «SINDACO DEI TARTUFI»

E’ morto ieri all’ospedale di cagli. Domani il funerale

Fonte : il Resto del Carlino del 23 settembre 2007

ACQUALAGNA . E’ MORTO ieri alle 15 in un lettino dell’ospedale di Cagli Ovidio Lucciarini. Combatteva da tempo col male. Tra gli ultimi a salutarlo Arnaldo Forlani, di ritorno ieri a Pesaro provenendo da Roma. Si è fermato a Cagli per tenere la mano stretta al suo amico Ovidio. Un’ora dopo, l’improvvisa fine. Ovidio Lucciarini aveva 82 anni. Era vedovo da otto, sindaco di Acqualagna per 35 anni di fila, dal 4 dicembre del 1960 (ma era stato assessore dal ’55) all’aprile del 1995. Col tartufo ha aperto tutte le porte che servivano per far conoscere nel mondo la sua Acqualagna. Si è presentato a papa Wojtyla con un canestrino di tartufi bianchi, ha attirato ad Acqualagna politici, attori, imprenditori e attricette. Ha inventato la stessa fiera del Tartufo quando nessuno o pochi ci credevano, si è dato da fare per trovare posti di lavoro ai ragazzi di Acqualagna all’Eni del suo grande amico Enrico Mattei. Se un sindaco fosse identificabile in una figura ben precisa, non potrebbe essere che quella di Ovidio Lucciarini, punto di riferimento per la gente dell’entroterra e per il partito della Democrazia Cristiana. Formatosi come assessore dal 1955 , a fine mandato il 4 dicembre 1960 venne eletto primo cittadino di Acqualagna e da quel momento regnò incontrastato fino al 1995. Ad ogni consultazione riscuoteva consensi da tutti: destra, sinistra e centro riuscendo a spostare dalla sua parte anche gli avversari politici più incalliti. Amava la gente, con loro si fermava a chiacchierare per ore e questo era il suo segreto. Nel 1965 intuì che il tartufo poteva essere uno dei principali volani per il lancio economico di Acqualagna e su sua iniziativa nacque la mostra mercato del tartufo, poi diventata fiera nazionale. Da quella metà degli anni ’60, personaggi politici, del mondo economico e dello spettacolo come ricorda il libro: “Acqualagna, annotazioni e immagini” di Roberto Fiorani hanno fatto la fila per partecipare alla fiera del tartufo e dare lustro alle aspettative di Lucciarini prima e di Bruno Capanna poi. Se ora Acqualagna può essere definita la capitale del tartufo e competere con la città di Alba, lo si deve molto proprio al loro impegno.ELENCARE le opere che il sindaco Lucciarini riuscì a realizzare per il suo comune, ci vorrebbe un libro, ma anche se non è stato scritto da nessuna parte, le gallerie del Furlo, utili per una più breve via d’accesso verso il mare, sono state praticamente il frutto dei suoi continui solleciti e visite agli ambienti romani, dove l’amico Arnaldo Forlani l’ha sempre ricevuto in maniera fraterna. Tra le opere pubbliche costruite sotto «il regno» di Lucciarini c’è la Casa di riposo per anziani, il palazzetto dello sport con annessa piscina, lo stadio comunale, la scuola materna ed elementare, il restauro del Bocciodromo, aree verdi, il parco del centro storico e altre ristrutturazioni importanti, ma anche una sollecitazione continua a imprenditori affinché investissero e offrissero occupazione ai giovani del paese.DURANTE le fiere nazionali del tartufo aveva istituito la «Ruscella d’oro» un riconoscimento per chi si era distinto come amico di Acqualagna. Lo ricordiamo il 1 novembre del 1973 quando la consegnò al senatore Giovanni Maria Venturi, tutti e due avevano gli occhi lucidi; nel novembre del 1980 Lucciarini raggiunse alla Città del Vaticano papa Giovanni Paolo II per donargli un cesto di tartufi e ripetere così dopo quattro secoli il gesto che il suo predecessore fece nel lontano 1506 nei confronti del papa Giulio II. Amico ed estimatore del compianto presidente dell’Eni Enrico Mattei, lo ricordava spesso nei suoi discorsi. Nel febbraio del ’62, Lucciarini ricevette Enrico Mattei ad Acqualagna con tutti gli onori. Il presidente dell’Eni tornava da Urbino, dove aveva ricevuto la laurea “Honoris causa”. Ricordava ieri il sindaco Bruno Capanna: «Lucciarini è stato sempre un combattente per il suo paese e non ha mai rinunciato a dare il suo contributo alla crescita economica e culturale di Acqualagna. L’ho sempre visto come un padre di questa comunità a cui prestare ascolto, anche se non sono mancati momenti di dialettica ma sempre all’insegna di un profondo rispetto». Lucciarini era tuttora presidente della banda cittadina e dell’associazione coltivatori del tartufo. Note di cordoglio sono state inviate da Forza Italia e Udc.Amedeo Pisciolini

PERCHE’ L’ANONIMATO

Mi è stata sollevata una critica da parte di un influente personaggio pubblico cagliese per il fatto di avere mantenuta riservata la mia identità di autore del blog.
Ci tengo a dire che da principio questa non è stata proprio una scelta: mi sono trovato per caso e per curiosità a compilare il questionario che consente di accedere alla acquisizione dello spazio web e alla costruzione grafica della mia prima pagina; non conoscendo dove mi stessero portando quelle operazioni, mi guardai dal fornire per quanto possibile le mie generalità.
Poi la prima pagina venne fuori ed io cominciai a chiedermi cosa ne avrei potuto fare. Cominciai a scrivere qualche cosa, cercai di migliorare la veste grafica, studiai il modo di rendere visibile il mio blog nei motori di ricerca, comunicai ad amici e conoscenti l’indirizzo web. Riuscii anche a trovare un contatore di visite che mi consente di conoscere la quantità dei visitatori che ogni giorno frequentano il mio blog; questo strumento mi consentì di conoscere un particolare interessante, che cioè nonostante ricevessi pochi commenti ai temi da me proposti, il numero dei lettori del blog saliva talvolta in modo molto incoraggiante. Interpretai questa forbice tra lettori e scrittori come un segnale forse di disinteresse per gli argomenti proposti, oppure di inerzia, o magari di soggezione e talvolta forse di paura di esporsi. Quando pensai alla opportunità di rendere pubblica o meno la mia identità, mi sembrò che farlo avrebbe potuto provocare un ulteriore calo di partecipazione ai commenti per rifiuto di qualsiasi coinvolgimento personale. Quindi ritenni giusto mantenere l’anonimato e soprattutto ritenni opportuno consentire l’anonimato ai commentatori per eliminare quanto più possibile ogni ritrosia da parte loro.
In fondo io non ho scelto di fare questo blog per acquistare popolarità, ma solamente per confrontare le mie idee con quelle degli altri su questioni inerenti alla vita nella nostra città e, come ho detto, sono convinto che l’anonimato aiuta questo confronto.
Poi non mi sembra di trincerarmi dietro all’identità nascosta per diffamare o per offendere o per proporre volgarità. Ed in tal senso cerco anche di moderare i commenti che ricevo. Quindi chi proprio non può fare a meno di conoscere la mia identità me la può chiedere a mezzo e-mail (il link si trova nella casella del mio profilo) e verrà soddisfatto senza problemi.
Ma poi non fate i finti tonti, ormai lo sapete tutti chi sono: siamo a Cagli, mica a New York !

venerdì 21 settembre 2007

I FILOSOFI E LA PIAZZA: PRIMO APPUNTAMENTO

Il Circolo Culturale Contemporaneo organizza la 2^ edizione di incontri.
Come accadeva nelle piazze dell’antica Grecia, così a Cagli si è ritagliato uno spazio definitivo per la filosofia e la “gente di piazza”.Dopo il grande successo della prima edizione i filosofi tornano dunque ad incontrarsi e scontrarsi su grandi temi d’attualità. Questa seconda edizione vedrà come protagonisti:

Gianni Vattimo e Domenico Losurdo il 22 settembre, i quali affronteranno il tema “Un Dio o un’idea? - Oltre lo scontro tra civiltà - ”,
mentre il 20 ottobre il protagonista sarà Umberto Galimberti, intervistato dal coordinatore e moderatore Paolo Ercolani sul tema "L'uomo è morto? Eutanasia dell'umano nell'epoca della tecnica".
Gli incontri avranno luogo al Teatro Comunale di Cagli, per informazioni rivolgersi al Comune di Cagli, ufficio cultura: 0721780731

sabato 22 settembre quindi il primo dei due incontri con Gianni Vattimo e Domenico Losurdo
Ecco un articolo che in qualche modo anticipa la visione di Vattimo sull’argomento e di seguito una intervista a Losurdo sul suo ultimo libro:

Cristianesimo e conflitti culturali in Europadi Gianni Vattimo

Da molti segni, sembra che il rapporto del cristianesimo con i conflitti culturali - o la possibilità che essi si accentuino o si inaspriscano - non sia concepito come un rapporto tranquillizzante. Voglio dire che difficilmente oggi il titolo di questo dibattito Cristianesimo e conflitti culturali in Europa sarebbe inteso da qualcuno, a tutta prima, come riferito al cristianesimo in quanto fonte di pacificazione, attenuazione, ecc. dei conflitti culturali. Almeno in prima approssimazione, ciò a cui subito si pensa è che il rapporto si configuri piuttosto nel senso che il cristianesimo - se non come specifica sorgente di conflitto - per lo meno appaia come uno dei termini che entrano in conflitto. In altre parole: l’esistenza di una tradizione cristiana come sottofondo costante, anche se vago e di senso non univoco - nel mondo occidentale, non che essere un elemento di appianamento dei conflitti è (o è diventata) un aspetto costitutivo di essi, se non addirittura un fatto che li promuove e rischia di esasperarli.
Accade qui un po’ come accade per l’interpretazione del rapporto religione-politica: come è capitato di constatare in un dibattito tenutosi di recente a Torino, è quasi “naturale” che la relazione tra religione e politica venga sentita come un rischio per l’autonomia della politica, e di rado , o quasi mai, come l’eventualità che la religione contribuisca positivamente ad arricchire e a migliorare la politica. Mi sembra ovvio che qui siamo di fronte a esiti di esperienze storiche determinate: nel caso del binomio religione-politica, alla base del modo “difensivo’ di intenderlo, sta probabilmente l’esperienza italiana (ma forse non solo, seppure con fisionomie diverse) di una lunga stagione di “ingerenza” della religione, o meglio della Chiesa cattolica, nella scelte elettorali degli italiani.
Quanto al rapporto cristianesimo-conflitti culturali, l’idea del rischio che la tradizione cristiana faccia parte del conflitto, o addirittura contribuisca a promuoverlo, nasce probabilmente con la fine dell’eurocentrìsmo: non pensiamo più che la civiltà europea rappresenti lo sviluppo naturale e normale di tutte le culture umane , che essa sarebbe legittimata a unificare sotto di sè; e così anche il cristianesimo non ci appare più come la rivelazione della verità che illumina le tenebre delle culture “altre”, liberandole dai loro errori o dalle loro parzialità; è una religione e una cultura che si confronta con culture e tradizioni diverse, e dunque è uno dei termini in gioco nel conflitto tra culture e non, almeno non così ovviamente, la sua soluzione.
Del resto neanche all’interno del mondo occidentale cristiano il cristianesimo sembra più funzionare come elemento unificante. E’ qui, anche, la radice un po’ più remota e meno evidente della diffidenza della politica verso la religione: anche dentro al mondo occidentale la religione cristiana è piuttosto un termine del conflitto che un fattore ovvio di unificazione e pacificazione. . Il modo in cui le società occidentali hanno cercato di risolvere il problema di un cristianesimo diventato, da elemento di coesione, fattore di conflitto - una trasformazione che coincide con l’inizio della stessa modernità europea, Riforma protestante, guerre di religione, ma che prosegue fino ai giorni nostri - è stato quello della “evacuazione” della tematica religiosa dall’ambito laico. Il liberalismo ha significato la riduzione della religione alla sfera del privato, al massimo all’ambito della società civile (del libero associarsi di cittadini per scopi “opzionali” ecc. - riv. Dilthey).
Escluse dall’area delle lotte per il potere politico e per la distribuzione delle risorse economiche , la scelta e l’appartenenza religiosa non sono più apparse come una minaccia per la pace sociale. Nel momento in cui il conflitto culturale vede però coinvolti nuovi soggetti religiosi, e cioè le culture altre che nel frattempo si sono stabilite fra noi, questa soluzione liberale del problema funziona ancora? Si può assumerla a modello per il trattamento dei conflitti interculturali? La risposta può difficilmente essere affermativa. La situazione sembra piuttosto essere la seguente: lo spazio laico della politica che sembrava essersi stabilito abbastanza solidamente dentro le società liberali dell’Occidente, non riesce con la stessa sicurezza a includere pacificamente al proprio interno le culture (o almeno alcune culture) “altre” che oggi sono presenti nella nostra società; esse tendono a vedere la stessa laicità dello spazio politico come una minaccia alla loro autenticità, e dunque ad assumerla non come una condizione positiva di libertà, ma come un limite negativo da rifiutare.
Credo si possa ricordare, come esempio emblematico , la storia del divieto del chador nelle scuole pubbliche francesi. Per stabilire una condizione laica nella quale deve essere garantita la libertà religiosa (o irreligiosa) di chiunque, si vieta l’uso (troppo) visibile di uniformi, segni distintivi, ecc. , che potrebbero dar luogo a conflitti proprio in quanto affermazioni troppo marcate di una identità culturale. Ma, come è facile vedere, qui l’identità culturale che sarebbe troppo esplicitamente affermata è una identità altra, minoritaria, relativamente estranea a una più radicata tradizione locale. Se si paragona il divieto del chador con la quasi generale accettazione della presenza di simboli cristiani nelle scuole europee (il Crocifisso alla parete della scuola non viene per lo più contestato, salvo casi che per ora sono in numero limitato), ci si può render conto di quelli che mi sembrano i tratti salienti della nostra situazione . La società europea è, mediamente, laica e secolarizzata, ma sulla base di una abbastanza esplicita eredità cristiana; e ciò diviene evidente quando ci si misura con persone o gruppi radicati in tradizioni diverse, che avvertono la nostra laicità come profondamente marcata da una origine religiosa specifica. Il liberalismo ha creduto di mettere da parte la religione, riservandone lo spazio del privato, del sentimento, delle fede che non “interferisce” con le scelte politiche e con la normale dialettica del potere. Ma questa separazione è riuscita solo perché si è realizzata sulla base solida, anche se non riconosciuta, di una comune appartenenza religiosa.
Lo spazio laico in cui la religione ha cessato di essere un fattore conflittuale si è realizzato nell’Occidente moderno entro un più ampio, e meno riconosciuto, spazio religioso di origine cristiana, o ebraico-cristiana o biblica. Si può esprimere tutto ciò in tanti modi diversi: per esempio, con la boutade (che io continuo a trovare estremamente significativa) di chi dice “grazie a Dio sono ateo”. O, in termini meno paradossali, con il riconoscimento che la secolarizzazione che caratterizza la modernità (come la razionalizzazione capitalistica collegata da Weber all’etica protestante e al monoteismo biblico) è un fenomeno tipico del mondo cristiano . O ancora, prendendo atto che, con un altro paradosso, l’idea stessa del pluralismo delle culture esiste e si è sviluppata dentro una specifica cultura, quella dell’Occidente.
E’ vero che la forma classica in cui l’idea della pluralità delle culture umane si è sviluppata nell’Occidente moderno è quella eurocentrica che oggi non ci appare più sostenibile. Essa collocava le culture altre su una linea evolutiva il cui punto più alto era la civiltà cristiana dell’Occidente. I popoli pagani dovevano essere convertiti al cristianesimo, e le società” primitive” dovevano diventare società moderne, e cioè modellate su quelle occidentali; caratterizzate anche in senso laico, liberale, democratico. Questa visione evoluzionistica della storia umana diretta dall’ideale di emancipazione come occidentalizzazione, modernizzazione, cristianizzazione, è andata in crisi non solo o anzituttto per motivi teorici; è stata la caduta del colonialismo e di molte forme di imperialismo a rendere insostenibile una simile immagine del senso della storia universale.
Se oggi constatiamo che il cristianesimo non si presenta più, o almeno non è più considerato ovviamente quanto prima, come un fattore di superamento dei conflitti interculturali, è anche e soprattutto perché è caduta la sicurezza universalistica della ragione occidentale moderna , che, anche se inconsapevolmente, era una traduzione secolanizzata della fede ebraico-cristiana nel piano divino di salvezza. Quella parte del pensiero cristiano che ha sempre considerato questa traduzione in termini secolari come un tradimento e un abbandono della verità, si compiace oggi del naufragio del "razionalismo” occidentale. Ma tale naufragio ha come sua conseguenza il fatto che il cristianesimo tende oggi a presentarsi come un termine del conflitto culturale, piuttosto che come un fattore di superamento e di conciliazione. La questione che così si pone è tanto più urgente in quanto, parlando di cristianesimo, continuiamo anche a parlare di società liberale, di occidente, di democrazia moderna.
E’ vero che la civiltà cristiana ha avanzato le sue pretese universalistiche lasciando che si intorbidissero e si mescolassero con i piani del colonialismo e dell’imperialismo. Ma con il colonialismo e l’eurocentrismo deve anche necessariamente finire ogni forma di universalismo della ragione e ogni sogno di una civiltà umana universale”? La tesi che intendo sostenere è che:
a) oggi ci sono segni evidenti del fatto che in molte comunità cristiane (nelle diverse chiese e confessioni) dilaga la tentazione di opporre all’universalismo compromesso con l’eurocentrismo del pensiero e della politica occidentale moderna, forme di chiusura che vanno dai vari tipi di comunitanismo (con il risvolto di una certa apartheid delle culture) al vero e proprio fondamentalismo non di rado aperto a esiti violenti;
b) credendo di sottrarsi con questo ai perversi esiti del razionalismo moderno, della secolarizzazione ecc. , il cristianesimo in realtà rinuncia alla sua missione di civilizzazione; che può ricuperare solo ritrovando, in forme certo non più evoluzionistiche e imperialistiche, la propria profonda solidarietà con il destino della modernizzazione.
E’ come se l’alternativa davanti a cui si trova oggi il cristianesimo (e certo sono consapevole che si tratta di un termine generico: la Chiesa cattolica? Le chiese cristiane? Il pensiero dei credenti. Tutto un po’ fosse o caricarsi del destino della modernità (e della sua crisi, del suo passaggio al post-moderno) o, all’opposto, rivendicare la propria estraneità ad essa; ma se scegliesse questa seconda via - e ci sono segni che una tale tentazione c’è rinuncerebbe a essere un mondo e una civiltà, per ridiventare quello che forse era alle origini, una setta tra altre sette e un obiettivo fattore di disgregazione sociale fra altri.
Caricarsi del destino della modernità, del destino dell’Occidente, significa anche, anzitutto, riconoscere il significato profondamente cristiano della secolarizzazione. Torniamo a ciò che si è osservato poco fa: lo spazio laico del liberalismo moderno è più religioso di quanto il liberalismo stesso e il pensiero cristiano sono disposti a riconoscere. Una immediata conseguenza di questa osservazione è che non ha senso, per il cristianesimo, collocarsi nel nuovo spazio dei conflitti interculturali cercando di costituirsi come identità forte. La sua vocazione è piuttosto quella di approfondire la propria fisionomia di sorgente e condizione di possibilità della laicità.
Ciò che - sia pure faticosamente, data la natura niente affatto lineare del problema - sto cercando di sostenere è che la dissoluzione post-moderna dei metaracconti (secondo l’espressione di Lyotard), e cioè la caduta in discredito dell’universalismo della ragione caratteristico della modernità, conduce anche il cristianesimo a sentirsi puro e semplice termine interno di una conflitto tra culture, religioni, visioni del mondo. Comunitarismo di ispirazione religiosa, e fondamentalismi di vario tipo (compreso quello che traspare talvolta anche nell’insegnamento ufficiale della chiesa cattolica), mi sembrano corrispondere a questo nuovo atteggiamento, che si sente tranquillamente legittimato dal fatto di aver chiuso i conti con le implicazione imperialistiche e colonialistiche dell’universalismo e del razionalismo di stampo illuministico.
Ora, è ben vero che, come insegna l’ermeneutica contemporanea di derivazione esistenzialistica (da Heidegger a Gadamer a Pareyson) , la condizione per qualunque dialogo autentico è che ciascuno degli interlocutori assuma esplicitamente la propria condizione di parte coinvolta, si renda conto e renda conto all’altro interlocutore dei propri pregiudizi o, più in generale, della propria identità, senza sentirsi fin da principio colui che sa di più e che può guidare il dialogo verso esiti previsti, già saputi come “veri” (è questo per esempio un motivo della diffidenza dei filosofi ermeneutici per una certa concezione del dialogo psicoanalitico, nel quale si suppone che non ci sia perfetta simmetria tra i due interlocutori). Ma il pensiero cristiano, collocandosi verso le altre culture come un interlocutore con uguali diritti, non dovrebbe dimenticare che fra i tratti costitutivi della sua identità c e appunto anche, e anzitutto, l’eredità dell’universalismo, o se si vuole, la consapevolezza della pluralità delle culture e l’idea di uno spazio laico entro cui esse si possono confrontare. Per collocarsi in modo autentico come interlocutore del dialogo, il cristianesimo non può mettere da parte proprio questo aspetto essenziale della sua eredità e della sua identità.
Per rispettare la sua specifica autenticità, diventa importante che, entrando nel dialogo interculturale, il cristianesimo si presenti come il portatore dell’idea della laicità; che è l’idea stessa dell’universalismo della ragione spogliata delle sue accidentali anche se molto radicate e pesanti - complicità con gli ideali del colonialismo e dell’imperialismo moderni. Ciò significa però che, invece di “identificarsi” come una religione fra le altre, rafforzando i propri caratteri distintivi - sia sul piano dogmatico, sia sul piano della predicazione morale e della coesione disciplinare - il cristianesimo dovrebbe sviluppare la sua vocazione laica -quella che si è già manifestata nel rendere possibile e nel favorire la nascita dell’idea di laicità nella modernità europea. Si tratta qui di riconoscere un aspetto essenziale del cristianesimo come tale, non una sua accidentale caratteristica secolarizzata: a differenza di altre religioni, il cristianesimo ha avuto fin dall’inizio una fortissima componente missionaria, molto esplicita nella predicazione di Gesù, che invia gli apostoli a predicare il Vangelo a tutte le creature.
La forma che l’ideale missionario ha preso nella modernità è stata, certo, quella dell’alleanza, spesso non solo subita come una triste necessità, con l’imperialismo europeo. Ma nello stesso tempo, l’universalismo cristiano dava anche luogo, sulla base delle terribili esperienze delle guerre di religione in Europa, alla scoperta dell’idea di tolleranza e all’invenzione di uno spazio “laico” di libero incontro delle diverse posizioni religiose o areligiose che si erano intanto delineate nella società moderna. Si trattava e si tratta ancora oggi di cogliere nell’annuncio cristiano non tanto e non esclusivamente la liquidazione di tutti gli (altri) dei falsi e bugiardi, ma - anche a partire dal famoso detto di Gesù “date a Cesare. . ”, e da quell’altro: “il mio regno non è di questo mondo. . ” - di garantire uno spazio di legittimità a esperienze religiose diverse. Del resto non è raro, anche presso pensatori che si professano cristiani senza riserve, trovare che l’incarnazione di Cristo è interpretata anche come legittimazione di tutti i simboli naturali della divinità: se Dio si incarna in Gesù, significa che non è così radicalmente lontano dal mondo naturale e umano, e dunque che c’è una possibile verità anche nell’idolatria di tante religioni pagane.
Il cristianesimo si libera della sua complicità con gli ideali imperialistici della modernità europea in seguito a una dura esperienza storica, quella della rivolta dei popoli ex-coloniali che si ribellano ai loro dominatori “cristiani” anche in nome di una più autentica interpretazione del messaggio evangelico. Anche il ritrovamento della propria vocazione “laica” - quella di presentarsi anzitutto come il promotore di spazi di libertà per il dialogo tra religioni, visioni del mondo, orientamenti ideali e culture diverse -e imposto” al cristianesimo dall’incontro della sua vocazione missionaria con esperienze storiche nuove e inedite. Nelle nuove condizioni dei rapporti tra popoli e culture diverse, nel mondo post¬coloniale - il cristianesimo non può pensare di adempiere alla propria costitutiva vocazione missionaria accentuando la propria specificità dottrinale, morale, disciplinare.
All’opposto, esso può sperare di partecipare al dialogo-conflitto, o confronto, tra le culture e le religioni solo facendo leva sul proprio specifico (giacché non lo si trova così marcato nelle altre religioni) orientamento alla laicità. Si potrebbe sintetizzare questa proposta in una specie di slogan: dall’universalismo all’ospitalità. Del resto, il diffondersi di posizioni fondamentalistiche o di forme di apartheid comunitanistìca, mostra chiaramente, secondo me, che nel mondo babelico del pluralismo, le identità culturali e specialmente religiose sono destinate a finire nel fanatismo a meno che non accettino di viversi in uno spinto esplicitamente debole. L’ospitalità - mi richiamo qui a una bella conferenza di Jacques Dernida del gennaio scorso - non si realizza se non come un mettersi nelle mani del proprio ospite, come un affidarsi a lui, accettando dunque l’eventualità, nel caso del dialogo interculturale o interreligioso, che sia lui ad aver ragione. L’identità del cristiano nel dialogo interculturale e interreligioso, se - applicando il precetto della carità - si vuole concretare nella forma dell’ospitalità, non può che ridursi quasi completamente al dare ascolto e al lasciar la parola agli ospiti.
Mi rendo conto che ciò che propongo qui è una tesi densa di conseguenze e molto discutibile. Ma il compito a cui si trova di fronte oggi il mondo cristiano, e cioè l’Occidente, è quello di ricuperare la propria funzione universalistica senza implicazioni coloniali, imperialistiche, eurocentriche. E’ difficile pensare che possa adempiere a questo compito accentuando la propria specificità dogmatica, etica, disciplinare. Una tale accentuazione, si può ragionevolmente sostenere, non corrisponde nemmeno all’essenza della dottrina cristiana, ma dipende piuttosto da una certa inerzia storica delle chiese come organizzazioni mondane. L’altra via che si apre per il cristianesimo è quella di ricuperare la propria funzione universalistica accentuando la sua vocazione missionaria come ospitalità e come fondazione religiosa (paradossale quanto si vuole) della laicità (delle istituzioni, della società civile, della stessa vita religiosa individuale).Così, per tornare all’esempio a cui mi sono riferito poco fa, i cristiani non possono nello stesso tempo rivendicare il diritto di esporre il Crocifisso nelle scuole pubbliche e assumerlo come segno di una religione particolare intensamente dogmatica
O ancora: si può continuare a celebrare il Natale come una festa di tutti, nelle società occidentali, ma non ha poi senso lamentarsi che è divenuta una festa troppo laica, mondana, priva del suo più autentico significato originario. In fondo, il divieto del chador nelle scuole pubbliche francesi può esser giustificato proprio solo dal fatto che lì tratta di una affermazione di identità forte, una sorta di professione di fondamentalismo. Il Crocifisso è invece diventato, nella nostra società, un segno quasi ovvio, a cui si presta meno attenzione, che lascia sussistere la laicità, segnalandone soltanto un’origine religiosa sviluppatasi nel senso della secolarizzazione. E’ proprio in questo suo significato, generico ma anche “aprente” e possibilizzante, che esso può rivendicare il diritto di essere accettato come Simbolo universale in una società laica. Se le religioni, e anzitutto il cristianesimo, vogliono davvero presentarsi come identità forti, allora sarà fatale che la società liberale manifesti la sua laicità solo con una progressiva riduzione della visibilità di ogni simbolo religioso nella vita civile - per non suscitare la reazione di questa o quella minoranza o comunque di religioni e culture “altre”. In tal modo, tra l’altro, finiremmo per dover chiudere gran parte dei musei d’Occidente, e rinunciare alla stessa tradizione culturale occidentale che è così densa di simboli religiosi e inseparabile da essi.
Bisogna semmai favorire una compresenza libera e intensa -certo, anche assumendo come modello di democrazia simbolica proprio il museo, con il suo accostamento di stili, gusti, culture diverse -di molteplici universi simbolici, secondo uno spirito di ospitalità che esprimerebbe bene sia la natura laica della cultura occidentale, sia la sua profonda origine cristiana. Ma per arrivare a questo punto, occorre che le religioni, e il cristianesimo in primo luogo, vivano se stesse non più nella forma dogmatica e tendenzialmente fondamentalista che le ha fin qui caratterizzate. Anche in questo senso, si può dire che, contrariamente ad ogni aspettativa angustamente laicista, il rinnovamento della nostra vita civile in Occidente nell’epoca del multiculturalismo è anzitutto un problema di rinnovamento della vita religiosa.


Micaela Latini
INTERVISTA A DOMENICO LOSURDO
IL LINGUAGGIO DELL’IMPERO. LESSICO DELL’IDEOLOGIA AMERICANA

Professor Losurdo, è recentemente uscito il suo ultimo libro, Il linguaggio dell’impero
(Roma-Bari, Laterza, 2007), per la casa editrice Laterza. Come emerge già dal sottotitolo,
Lessico dell’ideologia americana, al centro di questo lavoro è un’analisi di quelle categorie che
giocano un ruolo centrale nell’ambito della ideologia della guerra. L’obiettivo dichiarato, così mi pare, è quello di rivisitare alcuni “concetti-chiave” che sono ormai radicati nella comune
opinione, sottraendoli da un lato a quella interpretazione ideologica e spesso fuorviante che si
è andata affermando, e dall’altro a una semplificazione linguistica che non può restituire la
cifra della complessità dei fenomeni in causa.
Da quali interrogativi prende le mosse la sua ricerca? Può offrirci uno sguardo sinottico sul suo
lavoro?
Sul piano geopolitico e ideologico l’odierna situazione internazionale potrebbe essere così
caratterizzata: al tendenziale monopolio delle armi più sosfisticate e più micidiali – lo scudo
stellare degli Stati Uniti mira a rendere inservibile l’armamento nucleare degli altri paesi –
corrisponde la pretesa di Washington di ergersi a giudice universale, un giudice che per di più
detta le regole del discorso e sancisce in modo inappellabile le norme, i capi di imputazione
morale, i peccati, contro cui bisogna stare in guardia se si vuole evitare di essere messi in
stato d’accusa in quanto colpevoli, in misura più o meno grave e in modo diretto o indiretto, di terrorismo, fondamentalismo, antiamericanismo, antisemitismo (e antisionismo), filoislamismo
e odio contro l’Occidente. Dagli effetti potenzialmente devastanti, questi bandi di scomunica
colpiscono in primo luogo i paesi da Washington assimilati a canaglie fuorilegge, ma tengono
sotto tiro gli stessi alleati riluttanti. E’ stata questa situazione geopolitica e ideologica a
stimolare Il linguaggio dell’Impero.

Iniziamo dal primo temine: “Terrorismo”, uno delle determinazioni più usate per nominare la
violenza odierna, ma anche un concetto del tutto improprio e ambiguo (ad esempio nel fatto
che se per un verso è assimilabile a un giudizio soggettivo per altro è definizione descrittiva di
atti di violenza?). A quale forma di terrorismo si rivolge la sua analisi? Quali sono, a suo
parere, le radici del terrorismo, e in quale terreno affondano?
A proposito del terrorismo individuale nel mio libro cito un articolo dell’«International Herald
Tribune» che già nel 2000 annunciava giubilante: la Cia ha stanziato somme enormi «per
trovare un generale o un colonnello che conficchi una pallottola nel cervello di Saddam».
Passiamo ora al terrorismo di massa. Se con esso si intende lo scatenamento della violenza
contro la popolazione civile in vista del conseguimento di determinati obiettivi politici e militari, dobbiamo dire che nella storia l’esempio più clamoroso di questa forma orribile di violenza è stato l’annientamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki. A parlare a tale proposito di «bombardamento terroristico» sono ai giorni nostri autorevoli storici statunitensi.
Disgraziatamente, non si tratta di un capitolo remoto di storia. «Agli inizi degli anni Settanta»
del Novecento – a riferirlo sono sempre studiosi americani - Richard Nixon e Henry Kissinger
«ordinarono di sganciare nelle aree rurali della Cambogia più bombe di quante ne fossero state lanciate sul Giappone durante la seconda guerra mondiale, uccidendo almeno 750.000
contadini cambogiani». Per quanto riguarda il Vietnam, a trent’anni dalla fine delle ostilità,
sono ancora quattro milioni le vittime col corpo devastato dall’agente arancione ovvero dalla
diossina. Il ricorso ad armi che colpiscono nel mucchio e continuano ad avere effetti a
lunghissima scadenza ci mette in presenza di un terrorismo particolarmente crudele: esso ha
come bersaglio non solo l’intera popolazione civile, ma anche i figli e i nipoti di questa massa di innocenti.
Come si vede, ha ben scarsa credibilità la pretesa di Washington di ergersi a campione della
lotta contro il terrorismo! Certo, il linguaggio dell’Impero si concentra soprattutto sull’orrore
degli attentati suicidi. Ma anche in questo caso è istruttivo uno sguardo alla storia e
all’antropologia. Gli ebrei che a Masada oppongono resistenza all’Impero romano o che, oltre
un millennio dopo, nel corso della prima Crociata si impegnano a difendere la loro identità
religiosa e culturali; gli indios travolti dai conquistadores; i neri che con ogni mezzo cercano di
sottarrsi alla schiavitù: tutti questi diversi gruppi etnici hanno fatto ricorso con modalità
diverse alla pratica del suicidio. Di volta in volta gli osservatori più lucidi e sensibili si sono
sforzati di comprendere le ragioni di chi preferisce dare la morte a sé e ai propri cari, cercando talvolta di coinvolgere nella rovina anche i responsabili del gesto disperato. Di ciò si rivela incapace l’ideologia oggi dominante in Occidente…

Quando si parla del mondo arabo e islamico si ricorre, come per una deduzione logica, alla
categoria del “Fondamentalismo”. E’ a questo motivo, e alle sue diverse connotazioni, che lei
dedica il secondo capitolo del libro. Il fenomeno del “Fondamentalismo” è circoscrivibile al solo
orizzonte contemporaneo? E inoltre: è esclusivo appannaggio della cultura islamica?
Il fenomeno del fondamentalismo, non è limitato né alla modernità né al mondo islamico. Già
l’eminente storico inglese Arnold Toynbee, che ci ha lasciato un grandioso affresco delle
diverse civiltà emerse nel corso della storia universale, richiama l’attenzione sulla fanatica
resistenza all’insegna dello «zelotismo» ovvero del «mahdismo» opposta dai settori più
ortodossi e più radicali del mondo ebraico all’espansione politica e culturale dell’ellenismo.
Questi fondamentalisti ante litteram condannano la nudità e l’immoralità delle palestre e degli
stadi greci, soprattutto guardano con orrore al pericolo della contaminazione della culturale:
«Maledetto sia l’uomo che alleva un maiale e maledetti siano coloro che istruiscono i figli nella
sapienza greca». Siamo ben al di qua dell’avvento di Maometto, siamo nel secondo secolo
avanti Cristo!
Possiamo fare una considerazione di carattere più generale. Nei paesi chiamati a fronteggiare
l’invasione di un nemico più forte e più progredito, il fondamentalismo è l’atteggiamento di
quei gruppi che, assieme all’invasione, intendono respingere in blocco la stessa cultura degli
invasori. E’ un atteggiamento che spesso emerge come reazione a precedenti esperienze di
fiducia ingenua e mal riposta. Illuminante è l’esempio della Cina. A metà dell’Ottocento esplode la rivolta dei Taiping, filo-occidentale e ostile in modo implacabile nei confronti della dinastia regnante: duramente critica nei confronti del confucianesimo, essa si ispira al cristianesimo, dal quale desume in ultima analisi il monoteismo e il motivo messianico del «Regno celeste della grande pace». Ben lungi dall’essere xenofobo, è un movimento caratterizzato da intolleranza per la cultura tradizionale. Sennonché, contrariamente alle attese e alle speranze dei suoi dirigenti, la Gran Bretagna interviene a sostegno non già dei modernizzatori bensì della decrepita dinastia al potere. Ed ecco, nel 1900, svilupparsi in Cina un movimento del tutto diverso: assieme agli invasori, i Boxer prendono di mira anche le idee e le stesse invenzioni tecniche dell’Occidente, mentre difendono fanaticamente la tradizione religiosa e politica autoctona. Alla loro furia non si sottraggono né il telegrafo né le ferrovie né il cristianesimo: siamo in presenza, in ultima analisi, di una rivolta di tipo fondamentalista.
Qualcosa di analogo possiamo osservare a proposito dell’Iran dei giorni nostri: la vittoria della
rivoluzione fondamentalista ha luogo nel 1979, a circa 25 anni di distanza dal colpo di Stato
con cui Usa e Gran Bretagna rovesciano Mossadeq, il quale dirigeva un governo democratico e
laico e quindi aperto alle influenze della cultura occidentale, ma colpevole agli occhi di
Washington e Londra di aver nazionalizzato il petrolio e di voler respingere la tutela delle
grandi potenze imperiali.
Nel respingere in blocco la cultura e la religione degli invasori, il fondamentalismo tende a
costruire una sorta di religione nazionale. Ma questa tendenza si manifesta nello stesso
invasore, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti, che nel corso di tutta la loro storia si
atteggiano a «popolo eletto» da Dio e da Lui investito della missione di guidare il mondo.
Questa è più che mai la visione di Bush jr.. il quale va ancora oltre: «Dio non è neutrale
davanti al bene e al male. Dio è con l’America». Diamo ora la parola ai predicatori che si
muovono nella cerchia del presidente statunitense: «Dio è a favore della guerra», e ad essa
anzi prende parte direttamente: «Dio combatte contro coloro che a Lui si oppongono e che
lottano contro di Lui e i Suoi seguaci». Se molteplici sono le forme che può assumere il
fenomeno del fondamentalismo, solo nel caso americano esso finisce col consacrare
teologicamente un paese e un popolo ben determinato, garantendogli l’assistenza divina nella
sua pretesa di edificare un Impero planetario.

Un’altra espressione centrale e ricorrente è quella di “Antiamericanismo”, identificato come un
morbo che infuria sia da destra sia da sinistra. E’ storicamente fondata e documentabile una
tale interpretazione?
La storia degli Stati Uniti presenta caratteristiche peculiari. Siamo in presenza di un paese che, privo del peso della società cetuale dell’Antico regime, è il primo ad incamminarsi sulla via della democrazia rappresentativa (nell’ambito della comunità bianca). C’è però l’altra faccia della medaglia: per trentadue dei primi trentasei anni di vita degli Stati Uniti ad occupare il posto di Presidente sono proprietari di schiavi. Ciò vale per Washington, che dirige
l’insurrezione contro l’Inghilterra, per Jefferson, l’autore della Dichiarazione d’Indipendenza,
per Madison, l’autore della Costituzione del 1787. La schiavitù non è un residuo: a metà
dell’Ottocento gli Usa la reintroducono nel Texas strappato al Messico; più in generale, a lungo essi sono i campioni di un istituto che è scomparso in larga parte del continente americano. A ciò occorre aggiungere le pratiche di espropriazione, deportazione, decimazione e annientamento messe in atto a danno dei pellerossa. Per spiegare questo intreccio di
caratteristiche a prima vista così contraddittorie, autorevoli studiosi statunitensi hanno parlato
della storia del loro paese come della storia di una Herrenvolk democracy, ovvero di una
«democrazia per il popolo dei signori»: la democrazia nell’ambito della comunità bianca va di
pari passo con l’oppressione (sino alla schiavitù e al genocidio) imposta ai popoli coloniali.
Possiamo allora capire il diverso atteggiamento della sinistra e della destra. A partire da Marx
per giungere ai bolscevichi e a Gramsci, la sinistra apprezza il peso ridotto delle differenze o
delle barriere di ceto, che continuano a lungo a farsi sentire in Europa. Ereditando e
radicalizzando la tradizione della destra più reazionaria, Hitler scioglie invece un inno
all’«americanismo», inteso quale sinonimo di gerarchia razziale, di supremazia bianca, di
espansione inarrestabile a danno delle razze inferiori. Come si vede, quel che è amato dagli uni è odiato dagli altri, e viceversa. Chiaramente mitologica si rivela la tesi della convergenza tra antiamericanismo di destra e di sinistra.

Nel V capitolo del suo libro Lei affronta il termine “Antisionismo”. Secondo una certa lettura
avanzata nell’ambito dell’ideologia dell’Impero, l’antisionismo sarebbe una forma di
antisemitismo. Qual è la sua opinione a riguardo?
A questo luogo comune si potrebbe rispondere ricordando l’osservazione che negli anni ’20 fa
Lucien Wolf, incaricato della comunità ebraica inglese per le relazioni internazionali: «Gli
antisemiti sono sempre sionisti ardenti e simpatetici». Ciò non vale solo per la Gran Bretagna.
Già a partire dalla fine dell’Ottocento, ad augurarsi la realizzazione della «profezia di Herzl» e a prendere posizione a favore del sionismo («La Palestina agli ebrei! Gli ebrei in Palestina!»)
sono in Francia (in quel momento alla testa della campagna anti-ebraica) i più ferventi
antisemiti, sono i discepoli e i seguaci di Édouard Drumont, il quale ultimo incontra
personalmente Herzl e scrive una recensione assai favorevole del suo libro: Lo Stato ebraico ha chiarito una volta per sempre come si può risolvere il problema degli ebrei; basta «rinviarli
tutti in Palestina». Secondo Hannah Arendt, a condividere tale entusiasmo è persino uno degli
esponenti più famigerati del Terzo Reich: «Dopo la lettura di questo famoso classico sionista,
Eichmann aderì prontamente e per sempre alle idee sioniste». Agli occhi degli antisemiti e degli stessi nazisti, il sionismo sarebbe qualcosa di positivo se riuscisse realmente a metter fine alla presenza dell’ebraismo in Europa e in Occidente e dunque a liquidare la società multirazziale e multiculturale che qui sciaguratamente imperversa.
A tale proposito le citazioni potrebbero moltiplicarsi. Ma, per convincersi della totale assurdità
della consueta identificazione di antisionismo e antisemitismo, basta porsi una domanda:
dileguerebbe l’indignazione dei palestinesi se, a condurre il processo di espropriazione e di
colonizzazione delle loro terre, piuttosto che ebrei sionisti, fossero cinesi o afroamericani? Chi
argomenta in tal modo dimostra di avere un’inquietante visione razziale del conflitto e di
essere incline a quel razzismo che dice di voler combattere.

Il VI capitolo del suo libro è dedicato al concetto di “Filo-islamismo”. Può ricordare quali motivi
si stringono intorno a questo nodo concettuale.
Come dimostra ad esempio lo straordinario successo dei libri di Oriana Fallaci, è assai diffuso il motivo della minaccia mortale che il mondo arabo-islamico farebbe pesare sull’Occidente. Chi prende le distanze da questa Crociata è accusato di appeasement e di «filoislamismo». Nulla di nuovo sotto il sole! Già Spengler denuncia i «popoli islamici» quali campioni dell’agitazione e della rivolta anti-coloniale e anti-occidentale, quali protagonisti della «rivoluzione mondiale dei popoli di colore», della sciagurata sollevazione in corso contro i «bianchi popoli dei signori». E’ interessante notare che, tra il 1953 e il 1956, Churchill e Eisenhower hanno chiamato a combattere l’Egitto di Nasser in nome della difesa «dei bianchi» (of white people), dell’«uomo bianco» (the white man). Chiaramente, per i due statisti gli arabi continuavano a far parte delle popolazioni negroidi.
Ma, ai giorni nostri, arabi e islamici hanno preso il posto soprattutto degli ebrei. Essi sono
accusati di non volersi assimilare nei paesi occidentali che li ospitano, di costituire «uno Stato
nello Stato», di essere affetti da nevrosi e da nichilismo: sono i classici cavalli di battaglia
dell’antisemitismo. Persino la denuncia del «fanatismo» e della «teocrazia» non è affatto un
motivo nuovo: a suo tempo ha preso di mira gli ebrei, ostinatamente attaccati al loro testo
sacro e incapaci – si diceva – di adattarsi al mondo moderno. L’odierna campagna contro il
«filo-islamismo» ha preso il posto della campagna contro il «filo-semitismo» scatenata
nell’Otto e Novecento dai campioni dell’antisemitismo. Infine. Quando un autore quale
Huntington, guardando anche alla Cina, mette in guardia contro un possibile asse «islamicoconfuciano», siamo portati a pensare alle campagne naziste contro la cospirazione «ebraicobolscevica».

“Odio contro l’Occidente” è il titolo del VII, e ultimo capitolo del suo libro. Le riflessioni
contenute in questa sezione prendono le mosse da una domanda fondamentale: “Perché mai
l’Islam dovrebbe amare e rispettare l’Occidente più di quanto l’Occidente ami e rispetti
l’Islam?” Le categorie di Oriente ed Occidente sono, a suo parere, categorie proprie?
No di certo! A lungo, all’Europa da essi abbandonata gli americani hanno guardato come al
luogo del peccato e della tirannia, come all’Oriente: è il continente americano a costituire
l’emisfero occidentale. Anzi, stando a Benjamin Franklin, che scrive alla metà del Settecento,
gli europei (almeno quelli collocati sul continente) non fanno propriamente parte neppure della razza bianca: sono «di colore vagamente scuro», mentre «il nucleo principale del popolo
bianco», del «popolo bianco in modo puro» è costituito dagli inglesi insediati sulle due rive
dell'Atlantico. Una visione simile ha conosciuto una duratura fortuna anche in Inghilterra: non
mancava chi, scherzando ma non troppo, amava dire che «i negri cominciano a Calais»,
appena attraversata la Manica; con linguaggio ovviamente più misurato, lo stesso John Stuart
Mill non nasconde il suo disprezzo nei confronti delle «nazioni continentali».
A conferma della labilità dei confini dell’Occidente si può fare questa ulteriore riflessione: lo si
celebra come il luogo sacro o esclusivo della civiltà, implicitamente relegando il Terzo Reich
nell’Oriente. Ma, a chi l’avesse dimenticato Hannah Arendt fa notare che il «genocidio senza
precedenti», mirante a cancellare gli ebrei dalla faccia della terra, ha avuto luogo «nel centro
della civiltà occidentale». Disgraziatamente, però è la stessa Arendt ad affermare che il Belgio
di Leopoldo II, colpevole di aver drasticamente decimato la popolazione del Congo avrebbe
agito in contrasto con «tutti i princìpi politici e morali dell’Occidente». In realtà, i congolesi non hanno subìto una sorte peggiore degli aborigeni del Nord America, dell’Australia, della Nuova Zelanda ecc. D’altro canto: cosa avrebbe detto la Arendt di un bilancio storico in base al quale lo sterminio degli ebrei avrebbe avuto luogo nel Terzo Reich in contrasto con «tutti i principi politici e morali della Germania»? E’ la riprova che l’Occidente, e tanto più l’Occidente
«autentico», è il risultato di una costruzione mutevole e spesso arbitraria.

Lei, che si è già a lungo occupato delle ideologie di guerra, quali novità riconosce all’odierno
lessico dell’Impero?
La novità più importante è che oggi vediamo Washington ereditare ed unificare le diverse
ideologie che storicamente in Occidente hanno legittimato e alimentato le pretese al dominio e all’egemonia. Alla fine dell’Ottocento, dopo aver celebrato i prodigiosi successi conseguiti dalla Germania sul piano economico, politico e culturale, un fervente e influente sciovinista, e cioè Heinrich von Treitschke, prevedeva e auspicava che il Novecento diventasse un «secolo
tedesco». Ai giorni nostri, privo ormai di qualsiasi credito in patria, questo mito ha preferito
trasmigrare negli Stati Uniti, dove ha trovato accoglienza calorosa e entusiastica: è noto che il
«nuovo secolo americano» è la parola d’ordine agitata dai circoli neo-conservatori, che un
ruolo così importante svolgono nell’ambito dell’amministrazione Bush e, più in generale, della
cultura politica statunitense.
Nel corso della prima guerra mondiale, paesi come la Francia, l’Inghilterra, l’Italia e gli Stati
Uniti sono andati incontro al massacro agitando la bandiera dell’«interventismo democratico»:
la guerra era necessaria per far avanzare sul piano mondiale la causa della democrazia, per
liquidare negli Imperi centrali l’autocrazia e l’autoritarismo e sradicare così una volta per
sempre il flagello della guerra. Questo motivo ideologico ha ora assunto un’enfasi senza
precedenti ed diventato un monopolio degli Stati Uniti: essi si attribuiscono la missione eterna
e divina di imporre dappertutto, anche con la forza delle armi, «democrazia» e «libero
mercato».
Il mito dell’Impero apportatore di ordine, di stabilità e di pace accompagna come un’ombra la
storia del colonialismo e dell’imperialismo. All’apice della sua potenza, la Gran Bretagna della
regina Vittoria non disdegnava di paragonarsi all’Impero romano. Ovviamente, questo è un
motivo caro in modo particolare a Mussolini che, dopo aver in modo barbaro messo a ferro e
fuoco l’Etiopia, nel discorso del 9 maggio 1936, saluta la «riapparizione dell’Impero sui colli
fatali di Roma» e celebra il rinato impero romano come «impero di pace» e «impero di civiltà e umanità». E’ un motivo ben presente anche in Hitler, anche se questi, con lo sguardo rivolto
alla conquista dell’Europa orientale, preferisce far riferimento in primo luogo a Carlo Magno e
al Sacro Romano Impero della Nazione germanica. Caduta in disgrazia in Europa, tale
mitologia è più che mai di casa al di là dell’Atlantico, dove non mancano neppure le
riabilitazioni esplicite dell’imperialismo in quanto tale. In ogni caso, nei circoli dominanti il culto dell’impero è così forte da comportare anche la denigrazione della categoria di «equilibrio», inaccettabile già per il fatto di implicare in qualche modo l’idea di uguaglianza o di reciproco rispetto, sia pure soltanto tra le grandi potenze. A porre fine una volta per sempre a questo vecchiume è chiamato una sorta di rinato impero romano di dimensioni planetarie e, naturalmente, garante della pace, della civiltà e dell’umanità.
Infine. La storia della tradizione coloniale è tutta attraversata dall’appello enfatico alla difesa
dell’Europa e dell’Occidente e all’espansione dell’area della civiltà di contro alla minaccia ovvero all’ostinazione dei barbari. Nell’ereditare e radicalizzare la tradizione coloniale, il fascismo e il nazismo non potevano non riprendere questo motivo ideologico, che risuona in particolare nelle dichiarazioni dei dirigenti e degli ideologi del Terzo Reich, immediatamente confinante con la barbarie orientale e asiatica da sconfiggere e assoggettare. Ad ergersi a campioni dell’Occidente, e soprattutto dell’Occidente più autentico, quello più puro e più incontaminato dalle incrostazioni e dai cedimenti filoislamici, sono oggi gli Stati Uniti d’America.

giovedì 20 settembre 2007

RESTARE IN PIEDI

Menzione speciale da Legambiente e dal Dipartimento della Protezione Civile al Comune di Cagli per il Piano di Protezione Civile.

È una notizia che oltre a riempirci di orgoglio ci dovrebbe tranquillizzare per come i nostri amministratori hanno saputo pianificare le operazioni da approntare in malaugurate situazioni di pubbliche calamità.
Ma come si suol dire ”Fra il dire e il fare ….” Ci piacerebbe sapere quanti fra gli attori menzionati nel Piano hanno recepito veramente come funzionerebbe la “macchina” del Sistema di Comando e Controllo senza dovere correre, all’emergenza, all’affannosa ricerca del Piano per vedere cosa bisogna fare.
E ci piacerebbe sapere se sono state diffuse alle scuole ed alle famiglie le informazioni di cui al capitolo 11 del Piano mediante apposite conferenze e con la distribuzione di stralci del Piano, e se nelle scuole vengono tenute lezioni formative ed esercitazioni di protezione civile, e se il Piano viene periodicamente aggiornato.
Ma sono sicuro che tutto ciò è stato già fatto a mia insaputa, o se non è stato fatto verrà fatto quanto prima.

qui si può leggere il Piano:

http://www2.comune.cagli.ps.it/servizi/Relazione%20Attuazione%20Cagli.pdf


Ed ecco il comunicato stampa di Legambiente:

Rischio sismico: ecco i migliori piani d’emergenza tra i Comuni d’Italia
15/09/2007 12:09

Potenza, Assisi, Bastia Umbra, Piedimonte Etneo a le amministrazioni della Comunità montana della Garfagnana i vincitori di "Restare in piedi" il primo concorso nazionale per la pianificazione d’emergenza
Potenza, Assisi e Bastia Umbria sono i comuni di grandi dimensioni a rischio sismico che possono vantare i migliori piani d’emergenza in caso di terremoto, vincendo a pieno titolo ex aequo la categoria per le medie e grandi amministrazioni comunali d’Italia del primo concorso nazionale dedicato ai comuni a rischio sismico.

In Sicilia invece in vincitore della categoria “piccoli comuni”, Piedimonte Etneo in provincia di Catania può vantare infatti il migliore piano d’emergenza tra le amministrazioni con una popolazione inferiore ai 5.000 abitanti.
Definizione dello scenario di danno, puntuale studio del territorio, organizzazione di un corretto modello di intervento di protezione civile e incisive attività di informazione rivolte ai cittadini per di creare una vera e propria sensibilità per i temi legati alla prevenzione e alla mitigazione dei rischi: questi i segreti che hanno portato sul podio questi comuni.
“Restare in piedi”, questo il nome del concorso, è un’iniziativa di Legambiente e Dipartimento di Protezione Civile che ha coinvolto 708 comuni ad alto rischio sismico e ben 2.345 a medio rischio.

Oggi a Serravalle di Chienti (Mc) nel corso di un convegno dedicato si è arrivati alla fase finale del progetto con la premiazione dei sindaci vincitori, con la presenza di Francesco Ferrante, direttore generale di Legambiente; Fabrizio Colcerasa, vice capodipartimento della Protezione Civile; Gianmario Spacca, presidente della Regione Marche e Mauro Dolce del Dipartimento della Protezione Civile insieme a numerosi altri esperti del settore.
“Restare in Piedi – spiega Francesco Ferrante – rappresenta un’esperienza innovativa per valorizzare l’opera di pianificazione e prevenzione che molti Enti locali praticano concretamente sul loro territorio. Esempi positivi importanti, soprattutto per il rischio sismico che risparmia poche porzioni del nostro Bel Paese, che dovrebbero essere sempre più riprodotti dal Sud al Nord d’Italia. Il poter contare su un sistema efficace di intervento di protezione civile nazionale non può da solo garantire la sicurezza del territorio. Sono soprattutto i comuni – conclude Ferrante - ad avere un ruolo da protagonisti nella mitigazione del rischio sismico”.
A salire sul podio dei vincitori ci sono anche i comuni della Comunità montana della Garfagnana (LU), conquistando il premio per la categoria del concorso “piani intercomunali d’emergenza”, dimostrando una coerenza tra scenari di rischio e organizzazione del territorio.
“Tutti i piani di emergenza che sono stati iscritti al premio nazionale – spiega Simone Andreotti, responsabile protezione civile di Legambiente – sono di altissima qualità, dimostrando quanta strada sia stata fatta in Italia per la prevenzione e lo sviluppo di un buon sistema locale di protezione civile. Ma sono ancora casi troppo isolati, che si scontrano con una situazione di ritardo ancora diffuso.

La redazione e l’aggiornamento di Piani Comunali d’Emergenza e le campagne informative rivolte alla cittadinanza sono strumenti fondamentali per mettersi in sicurezza in caso di sisma, attività che vedono ancora troppi Sindaci ancor ancora in netto ritardo..”
Oltre ai vincitori, Legambiente e Dipartimento della Protezione Civile hanno consegnato menzioni speciali a quelle realtà locali che si sono distinte per buone pratiche da valorizzare e da diffondere nel nostro Paese come la Comunità montana Amiata Val d’Orcia (SI) e i comuni di Nicolosi (CT) e Cagli (PU).

martedì 18 settembre 2007

POLIZIA MUNICIPALE: TROPPI AGENTI IN UFFICIO ?

La necessità di vedere più agenti in giro per il territorio è oggi sentita più che mai.

Sarebbe utile soffermarsi su alcune considerazioni anziché rinunciare ad affrontare il problema trincerandosi dietro alla solita scusa della mancanza di fondi.

Al problema della sicurezza e alla necessità del controllo del rispetto delle regole in tutto il territorio vanno date risposte efficaci. Sarebbe opportuno porre la questione in termini realistici aumentando i fondi destinati allo scopo, investendo in uomini e mezzi, dotandoli di strutture idonee, ma prima e soprattutto reinvestendo sul materiale umano che si ha. Poi, forse, pensando ad un allargamento dell’organico.

Una soluzione potrebbe sembrare anche la possibilità di impiegare personale civile negli uffici della Polizia Municipale. Ma se è vero che negli uffici ci sono degli agenti impegnati in attività burocratiche e che in strada ci sono pochi agenti, è altrettanto vero che forse gli incarichi svolti da questi agenti burocrati sono talvolta attività specifiche delle forze dell’ordine, che devono essere svolte da chi ricopre esclusivamente la funzione di agente o ufficiale di polizia giudiziaria.

Quindi è sì un problema di fondi, ma è anche un problema organizzativo.

Ma ecco dal Corriere Adriatico un interessante suggerimento:

UNA NUOVA POLIZIA MUNICIPALE PER I COMUNI DELL’ALTO METAURO:
UN ESEMPIO DA IMITARE ?


Il problema della sicurezza e del presidio del territorio è al primo posto.
Sta per partire il servizio associato che coinvolge sei Comuni dell’Alto Metauro.
Il sindaco di Urbania illustra le finalità del progetto .
Fonte: Corriere Adriatico del 17 settembre 2007

URBANIA – Nei prossimi giorni prenderà avvio il servizio associato di polizia municipale. Sono coinvolti nel progetto i Comuni di Fermignano, Urbania, Sant’Angelo in Vado, Mercatello sul Metauro, Peglio e Borgo Pace. Faranno parte del servizio 14 agenti oltre al comandate. La sede sarà situata ad Urbania presso la Comunità montana, mentre ogni Comune manterrà un recapito. Una notizia positiva per tutta la comunità, soprattutto sotto il profilo della sicurezza che anche in queste zone cominciava ad essere carente. Ascoltiamo, sull’iniziativa, il parere del sindaco di Urbania Luca Bellocchi, che ce ne spiega tutti i dettagli.

Sindaco Bellocchi, quali finalità si intendono raggiungere con questa iniziativa appena varata?
“Da tempo il problema della sicurezza e del presidio del territorio è al primo posto nell’agenda dei sindaci, lo vediamo anche in questi giorni.
Per ottenere risultati efficaci occorre quindi che anche i Comuni siano maggiormente protagonisti e promotori della sicurezza.
Occorre un maggiore coordinamento con le altre forze dell’ordine e anche tra gli stessi Comuni.

Questo progetto - spiega ancora il sindaco Bellocchi - è una risposta forte a tutte queste esigenze perché grazie alla sua dimensione sovracomunale aggiunge un tassello significativo idoneo ad aumentare non solo il livello di sicurezza percepita tra i cittadini ma soprattutto quella reale”.

Come si è giunti alla sua realizzazione? Quali i vantaggi dell’associazione per l’intero territorio della Comunità montana?
“L’ufficio unico associato di Polizia Municipale è l’approdo di anni di lavoro e di tentativi che, finalmente, trovano un esito positivo. Per questo sono estremamente soddisfatto del lavoro di coordinamento e di propulsione svolto dalla Comunità Montana che è riuscita a coinvolgere sei Comuni e quindi un bacino di utenza di circa ventimila abitanti, nonché della sintonia con cui i sei sindaci coinvolti hanno collaborato.
Associarsi rappresenta un obiettivo primario per Urbania perché ritengo che, oggi, se si vogliono raggiungere certi livelli nell’erogazione dei servizi i Comuni non possono più agire da soli ma servono azioni coordinate e sinergiche con altri enti pubblici.”


Come sarà organizzato il servizio?
“In pratica, ogni Comune conserverà la presenza di agenti in base alle proprie esigenze, ma la formazione di un vero e proprio Corpo significa che si potrà contare su tutti i quattordici agenti oltre al comandante che presidieranno il territorio da Fermignano a Borgo Pace attraverso un’azione coordinata e quindi maggiormente efficace.
La sede sarà ad Urbania presso la Comunità Montana mentre ogni Comune manterrà sportelli distaccati.

Anche solo da questo si capisce che sarà possibile ottenere un migliore controllo del territorio attraverso un unico coordinamento che si impegnerà ad uniformare comportamenti e metodologie di interventi a rispondere con maggiore prontezza alle emergenze, a concentrare molte più energie laddove ce ne fosse veramente la necessità”.

Una valorizzazione anche delle forze in campo...
“Grazie alla costituzione di un Corpo di Polizia Municipale associato si potrà valorizzare il lavoro degli agenti attraverso percorsi di specializzazione in ambito ambientale ed edilizio, di polizia rurale, di potenziamento dei compiti di Polizia Giudiziaria.
Sarà disponibile una pattuglia che, mattina e pomeriggio, presidierà il territorio aumentando certamente la sensazione di presenza degli agenti e di vicinanza delle istituzioni ai cittadini.
Soprattutto – conclude il sindaco di Urbania - ci potrà essere un migliore impiego di risorse economiche ed umane, di mezzi e tecnologie. Si potranno costituire protocolli di intesa con le altre forze dell’ordine raggiungendo una maggiore sinergia e coordinamento con le stesse”.

Ora vedremo come tutto funzionerà. Le premesse ci sono.

Mario Criscillo
Allora perché non pensare ad un servizio associato di Polizia Municipale anche per i comuni della Comunità Montana Catria-Nerone ?

sabato 15 settembre 2007

TORNIAMO AL CINEMA !

Le serate invernali davanti al televisore non sono certo una bella prospettiva, visti i programmi che ci vengono propinati. Ma ecco finalmente venirci in soccorso il cinema: proprio qui a Cagli, senza dover muovere la macchina dal parcheggio tanto faticosamente conquistato. O un viaggetto breve breve fino a Cantiano per il fine settimana. Si può fare, no? Speriamo solo che i film che verranno proposti siano di nostro gradimento e che il prezzo dei biglietti sia abbordabile. Vuoi mettere una serata al cinema, magari con gli amici, al posto di una dormita in poltrona davanti alla TV?
Certo non sono più i tempi di quando la programmazione proponeva un film diverso ogni sera della settimana e con pochi spiccioli si poteva entrare in sala. Ma allora si vedeva di tutto, dal western da quattro soldi al colossal capolavoro superpremiato, dal giallo avvincente al documentario della serie “il mondo…di notte” con qualche cosciotta in bella vista o qualche “strep tease interruptus”. Il tutto naturalmente in …ennesima visione.
Oggi invece i film vengono proposti solo in prima visione, rimangono in giro pochi giorni e poi spariscono per ricomparire prima in DVD, poi in TV ed i migliori infine nei cinema d’essai. Ma quella è un’altra storia.

RISORGE IL CINEMA NUOVO EXCELSIOR DOPO CINQUE ANNI DI INATTIVITA’Era stato inaugurato nel 1960

Fonte: il Resto del Carlino

CAGLI , 14 settembre 2007
COMPLETAMENTE rinnovato negli arredi e con tecnologie all’avanguardia, riapre dopo una pausa di oltre cinque anni, il Nuovo Excelsior. Ovvero l’unico cinema di Cagli che fu inaugurato nel 1960 con il film «La Grande Guerra», dopo che il vecchio Excelsior, situato lungo il corso era diventato troppo piccolo per i numerosi spettatori del tempo. Per oltre quarant’anni, molte generazioni di cagliesi hanno potuto concedersi ogni sera il piacere di godersi un bel film nello spazioso ed accogliente Nuovo Excelsior. QUANDO fu inaugurato, era considerato un cinema all’avanguardia ed ogni sera gli appassionati di film arrivavano anche dai paesi vicini, Acqualagna, Cantiano, Piobbico, Frontone, etc. Poi una lunga pausa causata dalla crisi del cinema, che non ha risparmiato anche il cinema cagliese ed ai vecchi gestori non rimase che abbassare le serrande. Ora, un giovane di Piobbico, Alfredo Scipioni, ha riaperto l’Excelsior con 300 comode poltroncine tutte rinnovate, un maxischermo di ben 15 metri, un impianto dolby digital Dts ed una macchina da proiezione di ultima generazione. Anche gli impianti tecnologici, luce, antincendio, servizi sono stati tutti rinnovati ed adeguati alle attuali disposizioni di sicurezza. GIOVEDÌ pomeriggio, c’è stato l’ultimo sopralluogo delle autorità competenti e domani (sabato 15) alle ore 21 (dalle 20,30 sarà offerto a tutti un piccolo rinfresco) il Nuovo Excelsior riaprirà al pubblico con il film «Shrek 3°».

Poi ancora ogni sabato, domenica, lunedì, martedì e giovedì, i cagliesi potranno di nuovo tornare nel loro cinema per poter vedere come un tempo i loro attori e film preferiti.
Mario Carnali

E A CANTIANO IL CINEMA NUOVO FIORE RIAPRE DAL 29 SETTEMBRE
Fonte: Tutto Flaminia Marche del 11 settembre 2007

Dopo la pausa estiva, sabato 29 settembre 2007, riparte l’attività del cinema Nuovo Fiore di Cantiano.
Siamo al 10° anno di ininterrotta attività, portata avanti da un gruppo di volontari, collaboratori della parrocchia San Giovanni Battista, tra cui spicca l’instancabile operatore Sandro Paruccini.
Si sta già lavorando per riavviare i rapporti con le società di distribuzione, e come in passato, anche a Cantiano riavremo la possibilità di vedere la miglior produzione cinematografica, di cassetta e d’essai.

Invitiamo quindi, tutti i cantianesi, e i tanti affezionati dei paesi vicini, a riprendere la sana abitudine di frequentare la nostra bella e comoda sala, tutti i sabati e domeniche dalle ore 21,00.

Potrete seguire la programmazione dei films nella rubrica “tempo libero” sul sito www.comune.cantiano.pu.it


http://www.comune.cantiano.pu.it/cinema_out.asp

lunedì 10 settembre 2007

I ROTARIANI RIUNITI A FONTE AVELLANA LANCIANO IL PROGETTO “I CAMMINI DEL CIELO”


Tra eremi e santuari le ali dello sviluppo.
Interessante iniziativa dei cinque club rotariani dell’area appenninica umbro marchigiana che hanno posato la loro attenzione su un distretto culturale comune. Un progetto che stimola l’interesse degli operatori economici, commerciali, turistici e culturali, ma che necessita anche della presa di coscienza da parte dei pubblici amministratori, senza l’impegno dei quali ogni iniziativa di tale portata resterebbe lettera morta.
Dal Corriere Adriatico di ieri riportiamo la notizia del progetto lanciato nel corso dei lavori svoltisi sabato a Fonte Avellana:

SERRA SANT’ABBONDIO - Basta poco per innescare una rivoluzione. Basta un’idea semplice, come il distretto culturale dell’Appennino umbro-marchigiano; gente decisa, come i rotariani dei cinque club dell’area; ed un luogo storico per antonomasia, come Fonte Avellana… Poi, il dado è tratto. Come ieri al monastero camaldolese di Serra Sant’Abbondio dove i soci dei club Altavallesina Grottefrasassi, Cagli Terra Catria Nerone, Fabriano, Gualdo Tadino e Gubbio, hanno gettato le fondamenta per un distretto culturale. Sulle orme del circuito turistico “ I signori dell’Anello”. Un circuito che incurante dei confini regionali e provinciali, trasforma i monti Cucco, Catria, Nerone e Petrano in cerniera naturale. “Un bacino - spiega Giambaldo Belardi, il presidente del club di Gubbio - che ha un comune tessuto ambientale, patrimoniale e sociale”.Comunque in verità l’idea non è proprio nuova. L’idea di trasformare in appeal le proprie peculiarità delle città d’arte minore tra Marche ed Umbria aleggia da una decina di anni nelle Comunità Montane, nei sistemi turistici locali e, in filigrana, nei tanti e vari studi sul turismo ignorati da un campanilismo esacerbato. Da ieri però con i rotariani il distretto culturale ha le giuste credenziali. Guidano l’operazione con maestria seguendo le solite direttrici del marketing territoriale. Parlano di strategie di sviluppo, di puntare sulle più innovative e d’intavolare una concertazione larga e rappresentativa.Ma, a differenza delle “Terre del Duca”, passeranno il comando solo quando saranno sicuri che gli obiettivi prefissati saranno stati correttamente metabolizzati. Avviando, perché no, un agenzia di sviluppo del territorio. Poi siccome i soldi sono i nervi della guerra, intendono redigere un piano finanziario e muoversi rapidamente per calamitare le risorse strategiche previste per lo sviluppo territoriale delle regioni Marche ed Umbria dal 2008 fino al 2013. L’spetto più convincente è che vanno anche al di là del loro bacino. Puntano su un’area più vasta , allargandosi fino alla costa e attivando “I cammini del cielo”. Le strade dei pellegrini che ricongiungono Fano ad Assisi, Loreto alla città di San Francesco. Un triangolo ricchissimo di monasteri, eremi e di abbazie che contiene ben due città patrimonio dell’umanità. Ma quello che stupisce ancora di più è che, salvo il vicesindaco di Cagli, venuto nelle sue veste di rotariano, nel pubblico non c’era un amministratore pubblico. Nessuno del mondo della politica ma operatori ed associazioni che vivono ogni giorno di pane e turismo. Non a caso erano presenti una grande agenzia di viaggio fabrianese, numerose associazioni di categorie di Gubbio e di Fabriano, la Confcommercio di Cagli, l’Assindustria di Ancona e la Meditsilva di Frontone. In fondo i rotariani stanno per dare vita ad un distretto culturale che seduce e convince pure. Poiché riposa non sulla storia ma su un'identità culturale.
VERONIQUE ANGELETTI,

UN VENERDI IMPEGNATIVO PER LA POLITICA CAGLIESE

VENERDI’ 7 SETTEMBRE A CAGLI SI SONO UNITE LE ANIME DEL SOCIALISMO
dal Corriere Adriatico di oggi ecco la notizia:
Il segretario Siligeni: “Apriremo a tutti, programmate tre conferenze”
CAGLI - Tutte le anime del socialismo cagliese si sono riunite ed hanno dato vita ad un unico partito, il Psi, e a Cagli l’altra sera si è festeggiato con la presenza di tanti iscritti, simpatizzanti e amici, e giovani. C’era l’ex sindaco di Cagli Sandro Biscaccianti, i vari ex segretari di partito, anni 70 - 80, il segretario Giancarlo Siligeni e il nuovo assessore del Comune di Cagli allo sviluppo economico, Fernando Santini. “E’ da tempo - esordisce il segretario Siligeni - che la politica si è allontanata dal cittadino e questo risponde tenendo un comportamento sempre più apatico e distaccato, è caduta la credibilità dei partiti. E’ necessario che la gente si riappropri del diritto di esprimere il proprio pensiero, delle proprie idee e che queste ultime siano ascoltate da chi ha ruoli istituzionali e politici. Il cittadino al centro del sistema e non , il cittadino buono solo al momento del voto. Abbiamo deciso di aprire a tutti, non solo ai socialisti, ma anche ai simpatizzanti, ai giovani e a chi politicamente la pensa in modo differente da noi. Verranno programmate tre conferenze: il territorio e le sue problematiche; l’acqua quale patrimonio da difendere; il ruolo del nostro ospedale nel Prs.”



CONTEMPORANEAMENTE IN ALTRA SEDE PRESENTATO IL MOVIMENTO POLITICO "LA DESTRA" DI STORACE
dal sito di CAGLI TRICOLORE riferiamo i contenuti dell’evento di venerdì 7 settembre:
Oltre cinquanta persone presenti nella sala ad ascoltare Storace, da sempre protagonista e sostenitore di una destra sociale, "la politica soffre una drammatica crisi di rappresentanza e di fiducia" a cui non si può, secondo il senatore, rispondere continuando "a ondeggiare tra vuote, inconsistenti, velleitarie proposte attorno a contenitori politici", i quali per altro, almeno nel caso di An, sembrano andare in pezzi: "sono ormai tanti i quadri che hanno lasciato o sono stati cacciati o sospesi dal partito per aver manifestato posizioni di dissenso, la risposta è in "un movimento per affermare il diritto alla presenza della destra nella società.
La Destra non intende essere l’ennesimo frutto malato della degenerazione partitocratica della politica.
Se la democrazia è un valore irrinunciabile in politica, vogliamo che essa trovi applicazione anche e innanzitutto all’interno dei partiti.
Vogliamo sostituire il sudamericano lìderismo dell’uomo solo al comando – generalissimo circondato da colonnelli – con l’idea plurale di leadership non oligarchiche.Vogliamo costruire un movimento in cui non siano commissioni disciplinari interne - sempre controllate dall’alto - a decidere e risolvere le controversie, ma dove esista un Garante degli iscritti e il rispetto dei diritti di costoro trovi piena attuazione in relazione alle leggi e al Codice civile se occorre.Un movimento pienamente consapevole delle molteplicità e delle differenze esistenti sull’intero territorio nazionale e per questo costruito sulla base di ampie autonomie di natura federale.Ci batteremo per una legge attuativa dell’Art. 49 della Costituzione che sancisca il riconoscimento giuridico dei partiti e movimenti politici, e sanzioni il mancato rispetto dello Statuto e le violazioni dei diritti degli iscritti. Questo vogliamo offrire in termini di dibattito a tutti coloro che si sentono motivati ad effettuare una scelta che riteniamo innanzitutto di rivitalizzazione della politica, una scelta per noi necessaria se si vuole ritornare al governo della Nazione con una Destra capace di incidere profondamente nelle scelte politiche fondamentali; per privilegiare il bene del nostro popolo e dell’Italia rispetto ai piccoli compromessi e agli interessi di parte che troppo spesso abbiamo visto prevalere sulle necessità politiche e i bisogni e le aspettative reali del nostro popolo. Per questo sarà costante e permanente il rapporto con le categorie produttive, professionali e sociali, sia con quelle tradizionali e più radicate che con quelle che emergono dai cambiamenti dei quadri legislativi e dagli usi e dai costumi.
La Destra vuole guardare al futuro anche nell’ individuazione di categorie nuove di cui intercettare la nascita e difenderne le istanze.Questo offriamo come base di discussione a chi vorrà partecipare ad una “Costituente per la Destra”, da svolgersi a Roma nel mese di novembre, alla quale desideriamo partecipino tutti coloro che sentono incolmabile la distanza tra i partiti esistenti e la propria dimensione politica, ma che credono sia un dovere tentare fino in fondo di rianimare un mondo addormentato; coloro che hanno dato vita ad esperienze di liste civiche, di movimenti locali e regionali e vogliono mettere i frutti del proprio lavoro a disposizione dell’intera comunità nazionale lavorando per l’unità delle forze di destra e non per la parcellizzazione di un mondo umano, politico e culturale.Questo offriamo con forza a tutti quei giovani che sentono il richiamo della militanza politica e non vogliono veder tarpate le ali del proprio impegno, della propria creatività e della propria volontà di costruire il futuro nei meccanismi stritolanti di organizzazioni giovanili burocratizzate nella logica del “partito dei piccoli”, prive di anima e passione, diventate soltanto fucina di un carrierismo della peggior specie. A questi giovani vogliamo offrire l’idea di un grande movimento generazionale di destra con il compito principale di cambiare insieme a noi l’Italia.Sulla base della adesione a questi principi chiamiamo a raccolta il popolo della Destra per una discussione sui temi concreti della sicurezza, del lavoro e dell’economia, dell’impresa e delle professioni, dell’ agricoltura e dell’artigianato, del sindacato, del terzo settore, della sanità e del welfare, della famiglia, dell’istruzione, dell’Università e della ricerca scientifica, della lotta alla droga, delle politiche sociali e culturali, dell’immigrazione e delle riforme, del governo del territorio, dell’ambiente, dell’autonomia energetica e dei grandi temi della politica nazionale ed europea, a partire dal federalismo e dal Mezzogiorno, al fine di redigere compiutamente – insieme – il programma politico della Destra italiana.Questo è ciò che proponiamo a chi crede fortemente nella Patria, a chi ritiene che valga ancora la pena spendersi per preservare e difendere l’orgoglio e la dignità del nostro popolo e affermare l’esistenza, l’importanza e la specificità della Civiltà italiana, a fianco delle altre civiltà e culture, nel quadro più vasto della Civiltà europea e della cultura dell’occidente; a chi crede che non debbano esistere pagine cancellate della storia e della memoria del nostro popolo, consapevoli che ogni periodo vada studiato, approfondito, meditato e criticato, ma che è invece un grave errore separare la Storia dalla Politica e optare per forme di giudizio trancianti, finalizzate a scopi immediati e personali di inutili legittimazioni; a chi ritiene del tutto inutile continuare a lacerarsi sul passato, vivere insensate nostalgie dell’ieri e dell’altro ieri, ma da persona del proprio tempo, convinta profondamente che la democrazia sia un sistema irrinunciabile per affermare e tutelare diritti e libertà, vuole concorrere a ridonare i valori fondamentali della Destra politica e culturale all’Italia e al nostro popolo.

domenica 2 settembre 2007

COME VOLEVASI DIMOSTRARE

Prima serata di parcheggio selvaggio in piazza ed è subito rissa.

La notte scorsa, poco dopo le due, si è scatenata una rissa fra alcuni giovanotti all’uscita dei soliti pseudo-pub di via Don Giuseppe Celli. I contendenti a suon di bastonate si sono spostati fino alla Piazza, circondati da uno stuolo di ragazzi e ragazze incapaci di frenare la scaramuccia. L’intervento dei Carabinieri ha fatto sì che i due si dileguassero prudentemente senza conseguenze.

Bella dimostrazione di civiltà! Dopo due mesi senza inconvenienti, in nome del sostegno all’economia locale (di chi ?) si è voluta ripristinare una situazione più volte giudicata vergognosamente illegale ed i risultati di questa scelta sorda ed irresponsabile non hanno tardato ad arrivare. L’economia di Cagli fondata sulla birra ! E perché no allora anche sulla droga e sulla prostituzione ? Rendono bene, sapete …?
Siamo ansiosi di conoscere il nuovo Regolamento di Polizia Urbana al quale ha lavorato il Vice Sindaco Mazzacchera insieme ai Vigili Urbani. Tale strumento normativo conterrà, a dire del promotore, regole di maggiore rigore per quanto attiene la convivenza all'interno dei confini territoriali della comunità di Cagli. Speriamo che, fra i tanti, affronti anche questo problema e che una volta approvato dal Consiglio Comunale (speriamo presto) sia però integralmente applicato e fatto rispettare. Anche di notte !